Libertatis Nuntius e teologia della liberazione

Scritto da Silvio Villa on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Nel discorso fatto recentemente ai vescovi della Conferenza episcopale brasiliana, il papa è tornato a ribadire le preoccupazioni e le critiche della Chiesa sulla “teologia della liberazione” di origine e ispirazione latino-americana. La “teologia della liberazione” in quanto tale non è condannata dalla Chiesa perché il tema e il messaggio della liberazione è centrale nella Bibbia, nella Rivelazione e nella fede dei credenti, ma sono talune sue interpretazioni in chiave marxista che incontrano e non possono non incontrare, ha detto il papa, l’opposizione della Chiesa stessa. Benedetto XVI non ha affermato, almeno in questa occasione, che il marxismo non possa essere assolutamente utilizzato ai fini di una analisi complessiva della o delle società contemporanee, ma piuttosto che la visione cristiana della vita e del mondo non può ridursi ad un’accettazione acritica «di tesi e metodologie provenienti dal marxismo» (Discorso del papa ai vescovi della conferenza episcopale brasiliana, in “Zenit” del 6 dicembre 2009). E, citando Giovanni Paolo II, ha ribadito che il principio direttivo della fede della Chiesa non è dato dall’analisi marxista, che può essere utile ma che non è mai indispensabile alla fede stessa, ma «”dall’unità che lo Spirito ha posto tra la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il magistero della Chiesa in una reciprocità tale per cui i tre non possono sussistere in maniera indipendente”» (Ivi).

Quindi egli, ricordando la recente ricorrenza del venticinquesimo anniversario della Libertatis Nuntius. Istruzione su alcuni aspetti della "Teologia della Liberazione", 6 agosto 1984, ha colto l’occasione per invitare sia i vescovi brasiliani sia i cattolici in genere a riflettere su alcuni passaggi essenziali di quella “Istruzione” sottoscritta dall’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede cardinal Ratzinger. In essa si premetteva che liberazione in senso religioso è liberazione dal peccato e da tutte quelle schiavitù di «ordine culturale, economico, sociale e politico, che in definitiva derivano tutte dal peccato, e costituiscono altrettanti ostacoli che impediscono agli uomini di vivere in conformità alla loro dignità» (Ivi). Ora, alla base degli errori, degli unilateralismi e dei fraintendimenti presenti «in certe forme della teologia della liberazione», precisava Ratzinger, sta proprio la sottovalutazione del fatto che la liberazione cristiana è innanzitutto liberazione dal peccato (causa) e la tendenza a considerare cause primarie della condizione infelice di molti uomini quelle iniquità economico-sociali e quelle arbitrarie e oppressive chiusure politiche e culturali che invece sono solo le conseguenze del peccato stesso.     

Ratzinger precisava subito che «questo richiamo non deve in alcun modo essere interpretato come una condanna di tutti coloro che vogliono rispondere con generosità e con autentico spirito evangelico alla "opzione preferenziale per i poveri". Essa non dovrebbe affatto servire da pretesto a tutti coloro che si trincerano in un atteggiamento di neutralità e di indifferenza di fronte ai tragici e pressanti problemi della miseria e dell’ingiustizia. Al contrario, essa è dettata dalla certezza che le gravi deviazioni ideologiche denunciate finiscono ineluttabilmente per tradire la causa dei poveri. Più che mai, è necessario che numerosi cristiani, di fede illuminata e risoluti a vivere la vita cristiana nella sua integralità, s'impegnino nella lotta per la giustizia, la libertà e la dignità dell'uomo, per amore verso i loro fratelli diseredati, oppressi o perseguitati. Più che mai la Chiesa intende condannare gli abusi, le ingiustizie e gli attentati alla libertà, ovunque si riscontrino e chiunque ne siano gli autori, e lottare, con i mezzi che le sono propri, per la difesa e la promozione dei diritti dell’uomo, specialmente nella persona dei poveri» (Ivi).

Ancora, argomentava Ratzinger, non c’è dubbio che il lievito evangelico è da annoverare tra i fattori che «hanno contribuito al risveglio della coscienza degli oppressi» e che «lo scandalo delle palesi disuguaglianze tra ricchi e poveri - si tratti di disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri oppure di disuguaglianze tra ceti sociali nell’ambito dello stesso territorio nazionale - non è più tollerato. Da una parte si è conseguita un’abbondanza, mai vista finora, che favorisce lo sperpero, dall’altra si vive ancora in uno stato di indigenza contrassegnato dalla privazione dei beni di stretta necessità, cosicché non si può più contare il numero delle vittime della denutrizione» (Ivi). E riconosceva apertamente che «la mancanza di equità e di senso di solidarietà negli scambi internazionali torna a vantaggio dei paesi industrializzati; in tal modo la differenza tra ricchi e poveri non cessa di acuirsi. Ne conseguono il sentimento di frustrazione, nei popoli del terzo mondo, e l’accusa di sfruttamento e di colonialismo economico mossa ai paesi industrializzati», cosí come «il ricordo dei misfatti di un certo colonialismo e delle sue conseguenze genera spesso ferite e traumi» (Ivi).

Tuttavia il cardinale tedesco insisteva soprattutto sul fatto che «non si può restringere il campo del peccato, il cui primo effetto è quello di introdurre il disordine nella relazione tra l’uomo e Dio, al cosiddetto "peccato sociale". In realtà solo una retta dottrina sul peccato permette d’insistere sulla gravità dei suoi effetti sociali». E articolava il suo ragionamento in questo modo: «Neppure è possibile localizzare il male principalmente e unicamente nelle cattive "strutture" economiche, sociali o politiche, come se tutti gli altri mali trovassero in esse la loro causa, sicché la creazione di un "uomo nuovo" dipenderebbe dall’instaurazione di diverse strutture economiche e socio-politiche. Certamente esistono strutture ingiuste e generatrici di ingiustizia, che occorre avere il coraggio di cambiare. Frutto dell’azione dell’uomo, le strutture, buone o cattive, sono delle conseguenze prima di essere delle cause. La radice del male risiede dunque nelle persone libere e responsabili, che devono essere convertite dalla grazia di Gesù Cristo, per vivere e agire come creature nuove, nell’amore del prossimo, nella ricerca efficace della giustizia, nella padronanza di se stesse e nell’esercizio delle virtù» (Ivi). Per cui la conclusione era che «ponendo come primo imperativo la rivoluzione radicale dei rapporti sociali e criticando, per questo, la ricerca della perfezione personale, ci si mette sulla via della negazione del significato della persona e della sua trascendenza, e si distrugge l’etica e il suo fondamento che è il carattere assoluto della distinzione tra il bene e il male. Per altro, poiché la carità è il principio della perfezione autentica, questa non può essere concepita senza l’apertura agli altri e senza lo spirito di servizio» (Ivi). 

Il cardinale Ratzinger era preoccupato in modo particolare del fatto che la liberazione continuasse a presupporre la conversione e che non fosse cercata per vie che allontanassero da quest’ultima. Non si può correre il rischio, scriveva, che «la lotta necessaria per la giustizia e la libertà dell’uomo, intese nel loro senso economico e politico, costituisca l’aspetto essenziale ed esclusivo della salvezza» (Ivi) e che il Vangelo della salvezza sia ridotto «ad un vangelo terrestre» (Ivi). Nello specifico cosa contestava Ratzinger? La sua contestazione era strettamente connessa al richiamo «pienamente attuale anche oggi» di Paolo VI, che da una parte distingueva nel marxismo «diversi aspetti e diversi problemi che si pongono ai cristiani per la riflessione e per l’azione» (Ivi), e ammetteva dunque la presenza in esso di indubbi elementi di verità, e dall’altra invitava gli stessi cristiani a comprendere che «sarebbe illusorio e pericoloso giungere a dimenticare l’intimo legame che tali aspetti radicalmente unisce, accettare gli elementi dell’analisi marxista senza riconoscere i loro rapporti con l’ideologia, entrare nella prassi della lotta di classe e della sua interpretazione marxista trascurando di avvertire il tipo di società totalitaria e violenta alla quale questo processo conduce» (Ivi).

Qui, mi pare, le cose cominciavano a complicarsi, non solo sul piano logico ma anche su quello storico-culturale: sarebbe come negare che la Chiesa, nella sua lunga e sofferta storia, non abbia mai cercato di comprendere e di assimilare nulla del cosiddetto mondo pagano, del mondo moderno o  contemporaneo, per paura di essere contaminata, pur sapendo che Dio ordinò al riluttante Pietro di battezzare un pagano come Cornelio che di punto in bianco, senza l’apporto di alcun teologo cristiano, si era spontaneamente aperto alla grazia divina; pur essendo noto che con o dopo Galileo anche la Chiesa avrebbe dovuto rivedere profondamente alcune linee portanti della sua teologia; pur apparendo evidente che i grandi e spesso tragici avvenimenti del mondo e della cultura contemporanei abbiano contribuito a modificarne la forma mentis e la sensibilità culturale.

Ma Gesù non era venuto a salvare i peccatori, non stava con loro, non ragionava con loro, non interloquiva con la loro realtà intellettuale, morale, sociale? Egli non era venuto in altri termini per sottovalutarli umanamente, per sottoporli ad una sorta di lavaggio del cervello, respingendone o sminuendone idee o conoscenze particolari, attitudini o occupazioni sociali, ma per purificare e convogliare tutto ciò verso la prospettiva d’amore, di perdono, di uguaglianza e di giustizia da lui annunciata, per trasfigurarne le concrete esistenze in un ordine spirituale radicalmente rinnovato. Analogo discorso deve farsi per il marxismo: il cristiano non può forse salvare ed eventualmente in che misura il marxismo come scienza della storia, come critica dell’economia politica o come critica demistificatrice delle ideologie, all’interno della costruzione e dell’attesa cristiane del regno di Dio? Non è il soffio stesso dello Spirito che, servendosi anche di uomini apparentemente ostili a Dio, consegna alle diverse generazioni della storia  strumenti conoscitivi ed interpretativi mai privi di difetti o limiti umani e tuttavia sempre nuovi e sempre più efficaci e idonei a garantire un sempre migliore approfondimento della Parola stessa di Cristo? 

Siamo quindi proprio sicuri in questo senso che il cristiano propenso a capire e a condividere taluni aspetti del marxismo sia ineluttabilmente condannato a perdere la via maestra e a soggiacere alla fine all’“ateismo” marxista? Certo, l’ambiguità, il pericolo di deviazioni, il rischio di una “secolarizzazione” della propria fede, sono sempre incombenti, ma non erano e non sono incombenti anche su tanti chierici medievali e postmedievali che si servivano del vangelo per avallare o giustificare arbitrarie posizioni di potere, indebiti privilegi ed iniquità di varia disumanità contro legittime e sempre più ampie richieste di libertà e di uguaglianza, contro i diritti crescenti di nuove nazioni e di sempre più ingenti masse popolari? Purtroppo, ci si può “secolarizzare” anche restando lontanissimi dalla tanto deprecata “violenza marxista”. E il problema resta dunque quello della responsabilità personale, per cui la Chiesa ha il dovere di intervenire ogni volta che, con o senza “teologia della liberazione”, vengano travalicati i limiti della sana fede in Cristo, ma anche di perdonare gli errori commessi tutte le volte che si sia sinceramente disposti a riconoscerli per riconciliarsi con Dio e con l’universale comunità ecclesiale.                    

Ratzinger spesso coglieva nel segno quando, nel documento esaminato, esemplificava e indicava chiaramente casi di errore manifesto nell’ormai ampia letteratura della “teologia della liberazione”: la negazione della natura divina del Cristo, in quanto Dio si sarebbe fatto carne e storia; l’identificazione di storia della salvezza e di storia profana; la riduzione del regno di Dio al perseguimento di forme di giustizia e di pace meramente storiche; l’identificazione del luogo per antonomasia della salvezza non più immediatamente con la persona di Cristo ma con i “poveri” (senza comprendere che, senza Cristo, i poveri restano poveri). Sono questi alcuni degli errori più clamorosi e ricorrenti nelle opere di alcuni celebri teologi della liberazione e non c’è cristiano sincero e leale che non possa e non debba ammetterlo. Ma, appunto, si tratta di vedere caso per caso, con molto scrupolo e possibilmente con ispirata generosità.

Poi, naturalmente, restano questioni più complesse che, proprio alla luce del Vangelo, della Tradizione e del Magistero della Chiesa, è più difficile trattare e risolvere univocamente. Si pensi alla questione emblematica della violenza come possibile strumento di difesa dei poveri e degli oppressi. Scriveva il pontefice:  «le "teologie della liberazione", che pure hanno il merito di avere ridato importanza ai grandi testi dei profeti e del Vangelo sulla difesa dei poveri, procedono ad un pericoloso amalgama tra il povero della Scrittura e il proletariato di Marx. In questo modo il significato cristiano del povero è sovvertito e la lotta per i diritti dei poveri si trasforma in lotta di classe nella prospettiva ideologica della lotta delle classi. La Chiesa dei poveri significa allora una Chiesa di classe, che ha preso coscienza della necessità della lotta rivoluzionaria come tappa verso la liberazione e che celebra questa liberazione nella sua liturgia» (Ivi).

Si può qui osservare che il povero della Scrittura non si esaurisce nel proletario o proletariato di Marx ma pare innegabile che anche il proletario di Marx abbia a che fare con il povero della Scrittura, mentre sembrerebbe del tutto legittimo ritenere che “il significato cristiano del povero” non venga sovvertito dal fatto che, senza sposare in toto le modalità e lo spirito ideologico-distruttivo della lotta di classe, ci si adoperi cristianamente per un’energica ed inequivoca difesa dei “diritti dei poveri”. Che poi la Chiesa dei poveri, invocata dai teologi della liberazione, venga da essi intesa come una Chiesa di classe, è o sarebbe certamente un errore, mentre non è evangelicamente errato ritenere, a parere di molti, che la Chiesa di Cristo è Chiesa dei poveri, di tutti coloro che sono disposti a riconoscersi come bisognosi dell’amore di Dio e a comportarsi coerentemente secondo criteri di concreta carità e di fattiva e generosa condivisione a tutti i livelli, per cui la Chiesa dei poveri possa ben tendere ad identificarsi non già con una Chiesa di classe quanto piuttosto con una Chiesa senza classi (e quindi senza divisioni, contrasti, gelosie), suscettibile di continuo perfezionamento. D’altra parte, non sembra legittimo proibire sempre e comunque, nel nome di Cristo, l’uso della violenza a scopo di legittima difesa. Senza andare troppo a ritroso con i documenti, il Catechismo della Chiesa cattolica autorizzato e licenziato da Giovanni Paolo II in data 11 ottobre 1992, non recita testualmente che «la resistenza all’oppressione del potere politico non ricorrerà legittimamente alle armi, salvo quando sussistano tutte insieme le seguenti condizioni: 1. in caso di violazioni certe, gravi e prolungate dei diritti fondamentali; 2. dopo che si siano tentate tutte le altre vie; 3. senza che si provochino disordini peggiori; 4. qualora vi sia una fondata speranza di successo; 5. se è impossibile intravedere ragionevolmente soluzioni migliori» (n. 2243)?    

Tuttavia, il maggior timore della Chiesa era, come è, che dalla concezione latino-americana di una Chiesa dal basso o del popolo possa poi svilupparsi «una critica delle stesse strutture della Chiesa», una critica che verrebbe articolandosi non semplicemente in «una correzione fraterna» nei confronti di quei pastori della Chiesa  il cui comportamento non rifletta eventualmente «lo spirito evangelico di servizio» attenendosi «a espressioni anacronistiche di autorità che scandalizzano i poveri», ma in una messa in discussione della «struttura sacramentale e gerarchica della Chiesa, quale l’ha voluta il Signore stesso», per cui alla fine nella «gerarchia e nel Magistero» si finisse o si finisca per denunciare «i rappresentanti effettivi della classe dominante che è necessario combattere», donde deriva infine che dal «punto di vista teologico, questa posizione sta a dire che il popolo è la sorgente dei ministeri e che esso può, dunque, scegliersi i propri ministri, in base alle necessità della sua storica missione rivoluzionaria » (Ivi). Ove questo timore risulti fondato, non vi è dubbio che il cristiano abbia il compito di continuare a difendere con amore la struttura sacramentale e gerarchica della Chiesa, pur avendo facoltà e, ove ve ne siano le capacità, forse anche il dovere di proporre qualche modifica che riguardi eventualmente le forme storiche di questa stessa struttura.

Allo stesso modo, non si può condividere la posizione di quei teologi della liberazione che respingano «con disprezzo» la dottrina sociale della Chiesa (Ivi), perché essa è il frutto di una continua e faticosa elaborazione teologico-dottrinale che semmai va integrata con tatto ed arricchita di possibili nuovi e significativi apporti. Se la Chiesa come istituzione deve essere paziente e comprensiva verso tutti i suoi figli e in particolare verso coloro che sembrano mossi da sincera preoccupazione e da un profondo spirito di carità verso determinate e più o meno ampie comunità di poveri e di oppressi, anche i teologi della liberazione devono accettare umilmente il confronto e, nei casi obiettivamente più dubbi o controversi, il giudizio della Chiesa. Essi devono pur sempre tener presente che, per quanto una certa parte almeno dell’opera di Marx possa sembrare imprescindibile nel quadro di una riflessione teologica contemporanea sulla fede, non sarà mai possibile che Cristo abbia ad imparare da Marx ma piuttosto che Marx, pensatore ebreo, in un modo o nell’altro abbia recepito talune importanti sottolineature biblico-evangeliche cercando di estrinsecarne poi il significato da un punto di vista metodologico-scientifico e traducendo in forme indebite e tuttavia non prive di un qualche originale vigore etico il messaggio evangelico di salvezza.       

Il papa ha ragione nel ritenere che i cristiani non si possano porre «nella prospettiva di un messianismo temporale, che è una delle espressioni più radicali della secolarizzazione del Regno di Dio e del suo assorbimento nell’immanenza della storia umana» (Ivi) e che la dimensione politica dei racconti biblici non sia la loro «dimensione principale ed esclusiva», anche se tutto questo non comporta un disimpegno teorico e pratico dalla lotta aperta e coraggiosa alle iniquità manifeste di questo mondo ma semmai, attraverso una supplica incessante di aiuto a nostro Signore e alla Madre sua celeste protettrice dei poveri e degli oppressi di ogni specie, un impegno davvero onesto e caritatevole, senza secondi fini personali ed obiettivi politici irrealistici anche se talvolta inevitabilmente violento (ma la violenza in senso propriamente evangelico non è tanto la violenza di difesa a favore di vite innocenti ed inermi ma quella di offesa gratuita e irrazionale), anche contro strutture sociali e storiche di peccato. 

Ecco: mi pare che ci sia ancora margine per collaborare utilmente, per cercare di attenuare le incomprensioni, di smussare certe apparenti incompatibilità dottrinarie e di rimuovere alcuni reali e troppo vistosi errori teologici che svuotano effettivamente la fede di ogni significato e la stessa teologia della liberazione di ogni credibilità, e in ultima analisi per cercare di capirsi e amarsi di più in un rinnovato fraterno spirito di carità. Che, in definitiva, se si legge attentamente tutto il documento fin qui esaminato, è quello che si augurava e si augura sinceramente il nostro amato papa Benedetto.