Il buon vescovo

Scritto da Francesco di Maria.

 

Il vescovo deve avere tante belle qualità umane: deve essere mite e mansueto, prudente e paziente, equilibrato e saggio, sobrio e caritatevole, accogliente e gentile, capace di ascoltare tutti e indipendente nel giudizio, energico e risoluto, umile e audace nella preghiera e nella fede, spiritualmente combattivo e dotato di un senso alto della giustizia. Il vescovo, naturalmente, deve avere anche una grande capacità di governo, deve saper ben guardare “dall’alto” il suo gregge, che è costituito non solo dai preti ma da tutti i fedeli; deve “sorvegliarlo” con molta cura ed amore, intervenendo prontamente soprattutto là dove vi siano motivi di particolare sofferenza o di discordia, per dare conforto e ricomporre i conflitti, e riconoscendo concretamente la priorità delle cose spirituali su istanze o interessi economici e materiali pure legittimi della sua diocesi. Senza la grazia di Dio, senza una vocazione autentica, senza una assidua preghiera, senza una volontà costantemente esercitata in uno spirito di verità e onestà, di rinuncia e di carità, tutto ciò non sarebbe possibile.

L’archetipo del vescovo è il Cristo: più il vescovo si sforza di assomigliare al Cristo, più egli reitera l’opera di Cristo sulla terra e in particolare nell’ambito della sua diocesi. Quanto più sarà un “buon pastore”, capace dunque di governare e amministrare senza comandare e senza esercitare potere in modo arbitrario, tanto più egli sarà utile alle singole anime e alla comunità e il suo servizio simile a quello dell’Agnello che ha sacrificato la sua vita per gli altri.

Per questo egli, come il buon pastore del vangelo, non dovrà imporsi sulla gente ma dovrà mettersi dalla parte degli agnelli, badando piuttosto a riconoscere e a respingere per tempo, sia tra i presbiteri sia tra i laici, quei “lupi rapaci travestiti da agnelli” che potrebbero arrecare danno al suo gregge. Né egli dovrà necessariamente eccellere in qualche scienza particolare come l’economia o l’edilizia o la politica, perché da lui, come ha scritto papa Benedetto XVI, «ci si attende che sia esperto nella vita spirituale (…) Ciò che i fedeli si attendono da lui è che sia testimone dell’eterna Sapienza, contenuta nella Parola rivelata» (Discorso al clero, Cattedrale di Varsavia, 25 maggio 2006).

Tutto ciò significa anche che egli dovrà astenersi dal dedicare troppo tempo ad aspetti secondari o marginali della sua attività pastorale come per esempio le interviste e le conversazioni giornalistiche e televisive o la partecipazione a manifestazioni di tipo istituzionale promosse e organizzate da corpi dello Stato o da enti e associazioni della cosiddetta “società civile”, sforzandosi piuttosto di assicurare la sua più assidua presenza nei luoghi anonimi e ineleganti della sofferenza e del bisogno materiale e spirituale.

Egli non dovrà pubblicizzare oltre misura il suo operato servendosi di canali giornalistici e propagandistici da lui direttamente dipendenti e gestiti da esponenti clericali ma dovrà lasciare questo compito a soggetti ed organi di informazione totalmente autonomi rispetto alla curia vescovile, pur sempre pronto a rendere pubblicamente ragione delle sue decisioni e delle sue scelte. Né dovrà preoccuparsi molto di affidare il suo apostolato alla cosiddetta “comunicazione” piuttosto che ad una semplice e non roboante testimonianza del vangelo di Cristo. Un vescovo, infatti, che rifugge realmente da adulazioni e onori e sa calpestare quotidianamente la vanità e la superbia sempre in lui risorgenti, si tiene a debita distanza dai riflettori del mondo e da tutto ciò che può depotenziare o macchiare la sua assoluta dedizione al Signore. Se ne tiene a distanza non in modo rumoroso o chiassoso, non peccando cioè di falsa modestia, ma in modo discreto e silenzioso, come sa fare solo chi tiene, secondo l’insegnamento di sant’Agostino (Sermones de Sanctis, 340/A), alla sostanza del lavoro vescovile e non al nome o al titolo di vescovo.

Di recente, ha significativamente e criticamente osservato il cardinal Tettamanzi: «Quando la Chiesa comunica, lo fa per declinare nell’oggi la parola di speranza del Vangelo: non è quindi pertinente quantificare il successo di questa comunicazione, oppure misurarne il consenso suscitato, contare le persone che ne hanno ascoltato il messaggio e sono rimaste ‘emozionate’ dalle sue parole. Le verifiche da porre riguardano anzitutto la fedeltà al Vangelo e la capacità di dirlo coerentemente e in modo da essere compresi dalla gente. Non sempre questa consapevolezza appartiene a chi fa comunicazione ecclesiale. Troppo spesso la realtà della Chiesa e il suo annuncio sono associati all’azione di un gruppo di potere, all’espressione di una parte politica, di un movimento culturale, di una delle tante voci che cercano di imporre il proprio parere nella piazza mediatica» (Card. Tettamanzi: “Comunicare la Chiesa? Meglio comunicare il Vangelo”, in “Adista”, n. 10, di gennaio 2010). Il “presenzialismo” degli uomini di Chiesa e degli stessi vescovi sui diversi palcoscenici di questo mondo, pur talvolta deprecato dal papa, è probabilmente una realtà molto più diffusa di quanto essi stessi non sospettino.    

Il vescovo, infine, non deve essere necessariamente una persona “presentabile al mondo”, ovvero dotato di linguaggio forbito e di belle maniere, sempre garbato, sempre tempestivo nel manifestare solidarietà o sdegno in ossequio alle convenzioni sociali e alle aspettative spesso fallaci ed ingiustificate degli uomini, sempre scrupoloso nell’evitare che la pace di Cristo sia percepita dalle folle e dai singoli come troppo soverchiante quella pace del mondo da essi più frequentemente agognata, sempre in pace egli stesso col mondo e mai in conflitto con esso.

Specialmente per quanto riguarda i vescovi, bisogna insistere sul concetto di servizio, perché, come disse Giovanni Paolo II, «si deve insistere sul concetto di servizio, che vale per ogni ministero ecclesiastico, a cominciare da quello dei vescovi. Sí, l’episcopato è più un servizio che un onore. E se anche è un onore, lo è quando il vescovo, successore degli Apostoli, serve in spirito di umiltà evangelica, sull’esempio del Figlio dell’uomo» (Catechesi del mercoledì, 18 novembre 1992, anche in “L’Osservatore Romano” del 19 novembre 1992).

Per cui, come recita l’articolo 119 dell’Instrumentum Laboris del 2001, Il vescovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo, «la carità pastorale esige (…) stili e forme di vita che, ad imitazione di Cristo, povero e umile, consentono al vescovo di essere vicino a tutti i membri del gregge, dal più grande al più piccolo, per condividere le loro gioie e i loro dolori, non soltanto nei pensieri e nelle preghiere, ma anche insieme con loro. In questo modo, attraverso la presenza e il ministero il vescovo tutti accosta senza né arrossire né fare arrossire affinché possano sperimentare l'amore di Dio per l’uomo».