Considerazioni su una polemica in corso: gli ebrei italiani sotto il fascismo

Scritto da Francesco di Maria.

 

Contrariamente agli «inizi degli anni ottanta», quando «la storia dell’ebraismo rappresentava in Italia una disciplina assolutamente minore, coltivata da un ristrettissimo numero di studiosi, sganciata dai temi centrali della storiografia italiana, dai dibattiti che animavano l’attività di ricerca in altri paesi dell’occidente», oggi «il panorama si presenta assai diverso; l’attenzione per il mondo e la cultura ebraica, nella vastità dei suoi caratteri, costituisce uno dei capitoli più interessanti delle trasformazioni della cultura, dell’attività editoriale, degli indirizzi della cultura di massa nell’Italia dell’ultimo ventennio del Novecento; in ambito storiografico, questo tema,!si configura come uno dei filoni più vivaci della ricerca». Questo tenne a precisare alcuni anni or sono lo storico Mario Toscano (Ebraismo e antisemitismo in Italia. Dal 1848 alla guerra dei sei giorni, Milano, Angeli 2003, p. 7). Solo che a questo notevole mutamento anche storiografico di interesse verso la storia e il pensiero ebraici e in particolare verso l’ebraismo italiano contemporaneo non si può pensare sia estraneo il condizionamento storico oggettivo esercitato in misura crescente, proprio sul finire del XX secolo, sulla mentalità media della società europea e mondiale da una sempre più prorompente dimostrazione ebraico israeliana di potenza economica e politico-militare. E accade cosí che, anche nella ricerca dichiaratamente umile e rigorosa, e presuntivamente innovativa e spregiudicata sotto il profilo metodologico, riaffiori inconfessato il superbo desiderio di procurare agli ebrei di oggi qualche rivincita per l’eterna persecuzione che gli ebrei di ieri e di sempre avrebbero subíto.

Cos’altro significa infatti l’avvertenza in apparenza anticrociana per cui si renderebbe ormai storiograficamente necessario far contare «l’impulso ad inserire l’esperienza ebraica del periodo fascista in un quadro di più lungo periodo, in modo tale da rendere il fascismo un momento – e non più una parentesi – di una più lunga storia, cogliendo la rottura che segnò nei confronti dell’esperienza liberale della nazione risorgimentale, ma anche il suo rapporto con le tradizioni precedenti e le sue ripercussioni successive, che lo rendono parte integrante della storia italiana e della storia degli ebrei italiani» (Ivi, p. 9)? Cos’altro significa quest’avvertenza se non appunto che gli ebrei non furono vittime solo dell’era fascista ma di una storia ben più ampia e complessa di discriminazione e persecuzione che veda tutto il popolo italiano colpevole di razzismo e antisemitismo (Ivi, pp. 214-215) e magari trovi alla fine la sua genesi nell’antica faccenda biblica del popolo ebraico che sarebbe stato sempre da tutti avversato in quanto “popolo eletto”? E dove vuole andare realmente a parare questa nuova indagine storiografica dal momento che non è capace di svolgersi indipendentemente dal «contemporaneo, impetuoso sviluppo della memorialistica ebraica italiana sul fascismo, le persecuzioni, la guerra, che appare caratterizzata da un’intensa e appassionata interrogazione alla ricerca di sé, da un tentativo di ripensare la propria esperienza storica e di ridefinire la propria identità» (Ivi, p. 10).

Il vero scopo di questa nuova ricerca storiografica, volendo saltarne i preliminari o i convenevoli, non sarà per caso quello di togliersi dalle scarpe più di un sassolino e di ribadire con ritrovata e fiera anche se sbagliata testardaggine il vecchio diritto della stirpe di Davide ad ereditare il mondo, attraverso i suoi figli di questo tempo, in un’ottica di opulenza e di dominio? Mi si scusi per la volgarità, ma non è più volgare e meschino contrabbandare una determinata esigenza ideologica di natura religiosa o pseudo religiosa, o più semplicemente di natura razziale, come istanza obiettiva di un distaccato ed imparziale lavoro storiografico, e quindi camuffare da impegno storico un bisogno tutto vitalistico e per certi aspetti persino dionisiaco di volontà di potenza?

C’è chi, ancora dottorando di storia contemporanea all’università di Venezia, si concedeva poco tempo fa il lusso di esprimere, dall’alto delle sue rispettabili ma evidenti origini ebraiche e forse di influenti amicizie accademiche, giudizi piuttosto inquietanti, giacché dal suo ragionamento si capiva chiaramente che la sua vera preoccupazione non fosse tanto quella di contrastare giudizi storiografici con cui alla fine il fascismo “si autoassolva” o finisca per essere troppo “edulcorato” quanto quella di puntare l’indice contro l’italianità in quanto tale e gli italiani in genere (S. Levis Sullam, Italiani brava gente?, in “L’Indice”, aprile 2004, n. 4, p. 5). Infatti, la domanda sarcastica e provocatoria che viene posta è: Italiani brava gente?, quasi fosse apodittico che invece gli ebrei siano sicuramente “brava gente”. Qui pare che non interessino tanto i processi complessi e le dinamiche reali e le contraddizioni oggettive di un periodo storico tra i più difficili, oscuri e drammatici della storia dell’umanità, ma «le molte storie degli “italiani comuni” (questurini, carabinieri, camicie nere, spie, ecc.) e della loro complicità o corresponsabilità con i nazisti negli arresti e nelle deportazioni del 1943-1945», negli arresti e nelle deportazioni cioè non di tutti i perseguitati antifascisti ma unicamente degli ebrei. Né ci si mostra più interessati a chiedersi quanti ebrei di Israele e del mondo oggi, in questo momento, si diano realmente da fare per impedire ulteriori atti di genocidio ai danni del misero e indifeso (indifeso persino con quei ridicoli e quasi innocui razzi che ogni tanto vengono spediti sul territorio israeliano) popolo di Palestina; o ad interrogarsi sulle complicità o corresponsabilità di europei ed extraeuropei con le autorità e le forze politiche israeliane negli arresti e nelle deportazioni, nelle torture e in tante altre pratiche quotidiane di annientamento, cui i fratelli e le sorelle fondamentalmente inermi di Palestina sono sottoposti.

Certo che gli italiani non possono vantarsi di essere “brava gente”: non possono ma, probabilmente, per ragioni molto diverse da quelle piuttosto schematiche e semplicistiche sopra indicate. E, d’altra parte, perché mai gli ebrei, in quanto ebrei e solo perché ebrei, solo perché discendenti di quei molti ebrei che sarebbero stati trucidati durante la seconda guerra mondiale, dovrebbero meritare quella qualifica? Quale contributo reale, a prescindere da versioni massmediatiche troppo superficiali o menzognere, sta offrendo oggi il popolo d’Israele alla pace del mondo? Non alla pace politico-economica nell’emisfero occidentale del mondo, ma alla pace nel mondo? Non è abbastanza evidente che il governo e il popolo stesso di Israele prediligano al momento nutrirsi, nonostante sofferenze e privazioni tra i civili israeliani, di quell’irriducibile messianismo nazionalistico e militarista che, da sempre preminente caratteristica storico-culturale di Israele, fu peraltro alla base, circa duemila anni or sono, della sua sconfitta e dell’eclissarsi stesso della sua storia nel corso di diversi secoli?

Gli storici vogliono approfondire il discorso sulla entità delle responsabilità fasciste e delle responsabilità di parte della popolazione fascista italiana in rapporto alla persecuzione antiebraica in Italia. Va bene, è legittimo, a condizione che non si sollevino polveroni infernali, dove tutti sono ugualmente colpevoli e nessuno può sperare in una vera innocenza, o polemiche speciose che preludano ad ipotetici tribunali apocalittici da cui, a dire il vero, non è affatto certo che gli ebrei contemporanei sarebbero più facilmente assolti che non tutti gli altri. Tutto si può e si deve fare ma nello sforzo effettivo e costante di rendere onore alla verità storica degli avvenimenti e nei limiti in cui sia onestamente possibile darne una ricostruzione attendibile. Altrimenti, anche ma non solo tra gli storici, uno ed inevitabile sarà l’esito: quello di fomentare, da una parte e dall’altra e da tutte le parti in discussione o in contesa, odio e intolleranza, e quindi nuova guerra e nuove catastrofi, benché il potente stato d’Israele sia convinto di poterla fare sempre franca, almeno per quanto riguarda i grandi numeri.

Un’impostazione saggia e ineccepibile è quella data al problema in questione da uno storico valoroso come Michele Sarfatti il quale ha scritto: «Nel corso del ventennio fascista gli ebrei videro colpiti e negati dapprima la loro uguaglianza – come gruppo – agli altri cittadini, poi il diritto a studiare, a lavorare, e, gradatamente, a risiedere nel Paese, infine lo stesso diritto a esistere. Ciò avvenne in forma talora non lineare ed ebbe comunque uno sviluppo processuale, le varie tappe essendo stimolate da quelle precedenti ma non da esse rese necessarie. L’intero processo ebbe radici complesse, risalenti anche ai decenni precedenti; ma esso ebbe inizio, “vita” e termine con i governi guidati dal fascista Benito Mussolini» (Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi, 2000, p. IX). Sarfatti ha anche aggiunto significativamente che, tra il ’43 e il ’45, «nella popolazione della penisola si svolse un duro confronto tra gli “italiani mala gente” – gli arrestatori, i delatori, gli acquiescienti, i non curanti – e gli “italiani brava gente” – i soccorritori attivi, i caritatevoli, i solidali, i giusti. Non è quindi possibile qualificare l’insieme della popolazione né con l’una né con l’altra definizione (peraltro, in entrambi i casi, verrebbe commessa una grave ingiuria ai danni degli appartenenti al secondo gruppo)» (p. 280). Ma non è un caso che Toscano, mostrandosi ben poco indulgente verso la sobrietà metodologica ed interpretativa dell’approccio proposto da Sarfatti, dissenta non di rado da quest’ultimo su questioni di fondo (Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., pp. 238-241).

Non si tratta, naturalmente, di fare il tifo per questa o quella interpretazione e assumere atteggiamenti mentali pregiudizialmente rissosi. Occorre capire però che la storia degli ebrei contemporanei non può essere scritta a colpi di becero moralismo ben sostenuto solo da eventuali e copiosi interessi economico-editoriali e pubblicistico-accademici ed alimentato da motivazioni politiche di bassa natura opportunistica. Per cui, si parli e si scriva pure, ovviamente, delle leggi razziali del ’38 e della persecuzione antiebraica e del lavoro coatto cui subito dopo sarebbero stati inviati oltre diecimila ebrei, e poi del fatto che sotto la Repubblica di Salò agli ebrei nostri connazionali sarebbe stata tolta la cittadinanza italiana e sarebbe stato tolto ogni diritto e ogni bene; si sostenga inoltre vigorosamente che «senza la collaborazione attiva delle autorità politiche e di polizia della RSI la deportazione degli ebrei dall’Italia verso i campi di sterminio non sarebbe stata assolutamente possibile» (E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 126) e che organi ed apparati dello Stato (ma di quale Stato?) e servizi italiani assunsero non di rado l’iniziativa di colpire gli ebrei solo perché «mossi da servilismo verso i tedeschi, da avidità affaristica soprattutto nella rapina dei beni ebraici o da vero e proprio fanatismo razzista» (Ivi, p. 127).

Al tempo stesso, però, si deve pur badare a non coinvolgere intere masse di popolo in vicende terribili o deprecabili ma pur sempre circoscritte a determinate zone della penisola e a momenti particolari della storia del nostro paese nel quadro di una tragedia mondiale, e a non sovrastimare più o meno arbitrariamente il carattere repressivo e punitivo di certi campi italiani di internamento civile in cui sarebbero stati reclusi o tenuti prigionieri gli ebrei.

Dei nostri eccessi mentali la storia, già di per sé gonfia di eccessi, non ha proprio bisogno. Si rimane francamente stupiti nel constatare che la ricerca accademica si attarda ancora su questioni il cui senso storico appare sfuggente o non cosí rilevante come si vorrebbe. Si prenda, ad esempio, la seguente affermazione: «va anche detto che ad essere dimenticati dalla gente comune e dagli storici non furono soltanto i campi più duri riservati ai deportati jugoslavi (la “categoria” più numerosa e perseguitata fino all’8 settembre ’43), bensí anche quelli “miti”, istituiti dal ministero dell’Interno a partire dal giugno del ’40 per il “normale” internamento di guerra degli stranieri nemici e/o indesiderati» (tra i quali, da un certo momento in poi, gli stessi ebrei) «e degli italiani “pericolosi”. All’amnesia, in questo caso, ha contribuito in buona misura la confusione tra l’internamento e il confino di polizia, che ha sottratto “visibilità” al primo, a vantaggio della più vecchia e più nota pratica del confino» (C. S. Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista 1940-1943, Torino, Einaudi, 2004, pp. 8-9).

A prescindere dall’esigenza di sapere se, come e perché non solo la gente comune ma anche gli “storici” possano dimenticare i campi di concentramento riservati ai deportati jugoslavi e se, come e perché si possa generare quella «confusione tra l’internamento e il confino di polizia», non è normale o comprensibile che, se ci si dimentica dei campi più duri, a maggior ragione ci si possa o debba dimenticare dei campi “miti” che furono in ogni caso luoghi ben più confortevoli rispetto ai luoghi in cui vennero consumandosi gli olocausti? Con ciò, beninteso, non si intende disconoscere l’importanza interamente negativa assunta non solo dai campi che furono “attivi” tra il ’43 e il ’45 sotto il governo di Salò e l’occupazione nazista ma anche da quei «miti» campi italiani pensati dal fascismo monarchico tra il ’40 e il ’43, quando cioè l’Italia può essere ancora «considerata nazione sovrana» (Capogreco, I campi del duce, cit., p. 14), per tenervi reclusi i civili “sospetti” o “pericolosi”. Nulla da ridire né sulla «riscoperta dei campi italiani» di ogni ordine e grado né sul fatto che persino il campo più mite e civile abbia rappresentato un momento fortemente involutivo e regressivo, incivile e disumano, nella storia della nostra nazione.

E’ senz’altro vero che gli ebrei che si salvarono dalla deportazione e dall’olocausto «perché internati in un campo italiano prima dell’8 settembre 1943, non devono necessariamente la loro salvezza alla “bontà” dei campi fascisti o di qualche Schindler nostrano» ma principalmente alla «particolare congiuntura geo-politica determinatasi, nel settembre del 1943, nel Sud della penisola. Questa zona dell’Italia, dove si trovava allora la maggior parte degli internati ebrei, fortunatamente non conobbe le nefandezze e gli orrori dell’occupazione nazista e della Repubblica di Salò» (Ivi, p. 13). Ma, appunto, si può dire che in questo senso, forse anche grazie all’aiuto e alla generosità delle popolazioni locali (vero?), il popolo italiano non si sarebbe di fatto distinto né per pregiudizio razziale e antisemita né per miseria morale? Sempre in questo senso non si può procedere alle “riscoperte” evitando possibilmente di assumere atteggiamenti sottilmente censori o tribunalizi nei confronti di un intero popolo che, allo stato delle cose, appaiono privi di un ragionevole fondamento storico?

In fin dei conti, senza voler chiudere gli occhi sulla situazione «pur sempre scandalosa che esisteva in Italia prima dell’occupazione tedesca», perché non si deve riconoscere serenamente che, in realtà, «i metodi di repressione e di persecuzione adottati dalla Germania nazista» contro gli ebrei furono di gran lunga neno desiderabili delle «condizioni dell’esilio» ebraico «nell’Italia fascista»? (K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, Firenze, La Nuova Italia, 1996, 2 voll., vol. II, p. XI, Prefazione -). D’accordo: gli ebrei italiani sono stati trattati male dal governo fascista italiano, talvolta da istituzioni ed organi anche autorevoli dello Stato dittatoriale italiano specialmente nell’epoca della sua crisi o lacerazione più acuta ed irreversibile, talvolta anche da gruppi di italiani fanatici ed intolleranti e poi ancora da singoli individui mal predisposti per diverse ragioni verso gli ebrei. Ma è sufficiente tutto questo ad autorizzare una gazzarra storiografica, poco animata da spirito di verità e molto animata da un più o meno sottile rivendicazionismo di origini incerte e assai sospette, contro un intero popolo e contro la verità stessa della storia integrale di una coscienza nazionale? Non si finisce in questo modo per fornire un comodo appoggio al maldestro tentativo del presidente della camera dei deputati del parlamento italiano di sostenere che della persecuzione antiebraica in Italia non fu responsabile semplicemente il governo fascista ma l’intera società civile italiana, cattolici compresi?

Bisognerà verificare attentamente se i giudizi espressi su quel passato non ancora lontano da parte di ebrei che, da soli o con propri familiari o conoscenti, ne furono personalmente vittime, siano più severi o più indulgenti dei giudizi espressi invece da quegli ebrei che fortunatamente scamparono alla tragedia o perché assistiti o protetti o perché nati ben oltre l’epilogo della tragedia. Si ha però come la sensazione (non esattamente epidermica) che, con l’andar del tempo, il bisogno in sé legittimo o la smania di fare chiarezza e di fare emergere tutta o tutte le verità storiche ancora sommerse venga coincidendo non già con un intelligente spirito di riconciliazione civil-nazionale ed internazionale (e parlo innanzitutto di un paese come l’Italia in cui l’avversione antiebraica fu incomparabilmente inferiore, in ogni senso, a quella che sarebbe venuta sviluppandosi in altri paesi europei come per esempio Germania e Francia) ma piuttosto, fra gli ebrei vivi e vegeti di questo tempo che non di rado non hanno patito personalmente o direttamente alcunché, con un oscuro desiderio di revanche spesso espresso con toni cosí astiosi ed aggressivi da renderlo di gran lunga sproporzionato rispetto al pur legittimo diritto ebraico ad un risarcimento morale e politico. E questa sensazione viene tanto più avvertita quanto più si tenga conto del fatto che chiunque critichi oggi apertamente e lealmente, dal punto di vista non solo politico ma anche etico e religioso, israeliani ed ebrei non più “erranti”, vale a dire non più propensi a perseverare o a riproporsi in un cammino di ricerca e di verità, rischia facilmente di essere bollato come antisemita, antiebraico, razzista e quant’altro.

Ora, per quanto attiene l’esigenza rigorosamente storica di verità, è forse auspicabile che ricercatori e studiosi comincino a considerare soprattutto il buon senso come ciò di cui dovrebbero essere docili strumenti. Il che significa che, rinunciando a criticare strumentalmente o demagogicamente ora «eroi e capi della Resistenza», ora le presunte ambiguità del mondo cattolico, ora quei sinceri antifascisti che però avrebbero la presunzione di essere antirazzisti già in quanto antifascisti, ora le persistenti e “significative” riserve degli intellettuali e dei politici italiani sulle posizioni israeliane e le stesse politiche governative italiane di tutta la seconda metà del novecento invariabilmente sospettose e oscillanti verso lo Stato di Israele (che sono tutte critiche presenti già nella Prefazione di F. Colombo a S. Zuccotti, L’olocausto in Italia, Milano, Mondadori, 1988, pp. 14-16), potrebbe per esempio rivelarsi storicamente proficua o più proficua, per la comprensione non solo delle cose passate ma di quelle presenti e di quelle future, una serie di considerazioni e di domande precise e misurate (contenute nel volume ora citato, pp. 292-293) come la seguente: prima dell’Olocausto, gli ebrei italiani «vivevano in una società dove i pregiudizi erano pochi e non esistevano barriere formali alla loro affermazione. Tuttavia anche in Italia vi fu l’Olocausto. Ebbe le radici nelle leggi razziali imposte dal dittatore fascista a una popolazione riluttante. Raggiunse il culmine solo durante l’occupazione tedesca, un periodo che portò alla superficie gli elementi peggiori della società e intimidì tutti gli altri. Fu contrastato da individui coraggiosi che salvarono migliaia di vite. Tuttavia l’Olocausto vi fu, avallato dal governo e dalla stampa, realizzato da migliaia di fanatici e tollerato da una maggioranza terrorizzata, preoccupata o indifferente. L’Olocausto in Italia fu un fenomeno confuso!un miscuglio di coraggio e vigliaccheria, generosità e degradazione, abnegazione e opportunismo. In contrasto con ciò che avvenne in altri paesi, forse, il comportamento più degno controbilanciò quello indegno: ma gli orrori appartennero comunque alla realtà.

Tutto ciò potrebbe ancora ripetersi? La nostra tendenza è rispondere con fermezza di no. Eppure gli italiani prima del 1938 avrebbero ugualmente risposto di no, con una sicurezza anche maggiore. Forse dovremmo riflettere sulla loro esperienza perché, como loro, siamo fieri della loro tolleranza verso le minoranze. I pregiudizi sono decisamente fuori moda. Molte delle nostre minoranze possono essere meno assimilate, più straniere e molto più povere di quanto lo fossero gli ebrei italiani prima del 1938; ma abbiamo la certezza che godano di ogni opportunità. Abbiamo anche noi i nostri antisemiti e i nostri razzisti, ma tendiamo a considerarli come una fascia marginale di pazzi. Dovremmo riflettere sulla storia dell’Olocausto in Italia e chiederci ancora una volta come incominciò. Ebbe inizio con l’occupazione nazista nel 1943, o con le leggi razziali del 1938? Oppure incominciò con la dittatura quando al primo dissidente fu negata l’uguaglianza di fronte alla legge? L’Olocausto ebbe inizio quando i primi teppisti in camicia nera manganellarano le loro vittime e le costrinsero a bere l’olio di ricino? Dovremmo inoltre riesaminare il modo in cui si comportarono in maggioranza gli italiani all’inizio del fascismo. Agirono con compassione e umanità verso i perseguitati di ogni credo politico e religioso? Fecero tutto il possibile? Oppure anche loro, come gli ebrei, avrebbero dovuto conoscere il pericolo da molto tempo, alla prima negazione della libertà?

Dovremmo inoltre chiederci se noi, esseri privi di pregiudizi, ci comporteremmo come fecero tanti italiani sottoposti a simili pressioni. Rischieremmo la vita per le minoranze perseguitate? Saremmo sensibili ai primi assalti contro le nostre libertà, quando gli unici che ne soffrissero all’inizio fossero comunisti, socialisti, antifascisti democratici e sindacalisti? E infine, forse potremmo essere più consapevoli degli orrori che può commettere una feroce minoranza razzista, anche nelle migliori delle società» (Susan Zuccotti, L’olocausto in Italia, cit., pp. 292-293).

Quando ragiona con argomentazioni e toni interlocutori di questo genere, lo storico, indipendentemente dalla maggiore o minore validità di risultati specifici raggiunti, contribuisce a fare della storia una disciplina veramente «scientifica» e al tempo stesso una palestra di libertà razionale e di coraggio civile.

(pubblicato in “Bucinator”, 7, 2005)