Intelligenti secondo Cristo

Scritto da Francesco di Maria.

 

In questo mondo mi sono sentito sempre inadatto e inadeguato rispetto alle regole e alle logiche correnti del vivere civile: o troppo autoritarie e repressive o troppo licenziose e permissive, o troppo generiche ed astratte o troppo cavillose e speciose, sia in ambito familiare, sia in ambito scolastico, sia in ambito parrocchiale, sia in ambito universitario e professionale, sia in ambito sociale e politico. D’altra parte, da un punto di vista strettamente relazionale, mi sono spesso trovato in una condizione di disagio o di sofferenza: in particolare la parola amicizia per me, sin da quando ero ragazzo, è stata sempre una parola enigmatica, una parola bella da pronunciarsi ma assai difficile da viversi e da praticare. Sarà stato per la limitatezza delle mie esperienze personali e per una mia innata ritrosia caratteriale, ma non sono mai riuscito ad accettare di poter far parte di gruppi o di associazioni, ivi compresi quelli religiosi, a condizione di condividerne un certo cameratismo o comunitarismo epidermico e irriflessivo, un certo conformismo intellettuale magari condito da una buona dose di spiritualità dogmatica e velleitaria. Perché il più delle volte mi è capitato di sperimentare proprio situazioni di questo tipo. Mi sono sempre ritratto, non perché mi sia sentito più intelligente e più puro di altri, o spiritualmente più fertile, bensí perché esistenzialmente bisognoso di un’intelligenza mai ferma ma sempre in movimento seppur disciplinata, di una sensibilità non abitudinaria o standardizzata, di una spiritualità non passiva o rituale ma dinamica e capace di mettere in discussione stili di vita ritenuti normali.   

Probabilmente questo mio modo di sentire mi ha reso nel tempo, in una certa misura, presuntuoso o superbo: sono stato sempre molto critico verso modelli troppo unilaterali ed angusti di comportamento intellettuale e morale, verso “professori” improvvisati ed accademici poco credibili o inaffidabili, verso “specialisti” astrusi o colleghi liceali rozzi e dequalificati insopportabilmente fastidiosi e pesanti, verso presidi complessati e psicologicamente impettiti o verso “eccellenze” istituzionali più presunte che reali, e in generale verso quella ampia e variegata categoria di mediocri inconsapevoli che riescono a vivere solo di apparenza, di vanità, di falsità, di compromessi e di favori. Ma confesso che la mia insofferenza per una vita recitata, per virtù più ostentate che possedute, come per gli imbroglioni e i mistificatori di qualunque genere, l’ho sempre sentita essenzialmente come l’effetto di un semplice e irrefrenabile spirito di verità. Una volta, un collega di liceo, dopo aver ottenuto una cattedra universitaria in età abbastanza avanzata, in virtù di un paio di libricini oggettivamente privi di valore e di rilievo scientifico e soprattutto dopo alcuni decenni di servizievole pellegrinaggio presso il dipartimento universitario di un cattedratico campano, mi disse boriosamente, a me che non attribuivo alcun particolare valore ai titoli accademici in sé considerati, che potevo essere anche il miglior intellettuale del mondo ma che, se fossi rimasto isolato, sempre una nullità sarei stato. Gli risposi che si può essere accademici patentati ma che, se si è incompetenti, se si è delle nullità, sempre incompetenti e nullità si resta, mentre non è detto che chi è isolato oggi rispetto alla comunità scientifica debba restarlo per sempre rispetto a qualsivoglia comunità scientifica e che la sua opera sia destinata ad un eterno oblío.    

Io penso che risposte simili in casi del genere siano non solo corrette ma doverose e necessarie: soprattutto per contrastare la falsa idea che i nostri meriti personali siano quelli consacrati dal successo mondano. A volte lo sono, altre volte e ben più di frequente non lo sono: il cristiano poi sa che ogni cosa, ivi compresi i nostri presunti meriti o demeriti, sarà perfettamente svelata e decretata in cielo. Oggi però so anche che lo spirito di verità non può andare disgiunto dallo spirito di carità e che, se è vero che cristianamente si ha il dovere di valorizzare tutte le qualità, tutti i carismi, i talenti, presenti nella comunità sociale e innanzitutto in quella ecclesiale, denunciando anche con umile fermezza una prassi esattamente contraria, altrettanto vero è che, quale che sia il destino di ciascuno di noi, la parola evangelica ci invita a non cercare mai i primi posti, a mettersi da parte, a saper rinunciare anche a quello che forse ci spetterebbe, in attesa del giorno in cui il Signore ci chiamerà secondo i nostri reali meriti e alla luce del suo inappellabile e giusto giudizio.

Con ciò, beninteso, non ho mai inteso disconoscere i miei enormi limiti intellettuali e soprattutto umani, morali e spirituali: ho disprezzato e ferito talvolta pesantemente il prossimo, mi sono reso colpevole di atti vili e turpi, di comportamenti inaccettabili e degni di biasimo. Ho conosciuto la disperazione, ho gridato al Signore che per lungo tempo avevo rinnegato e tradito, al Signore che si rendeva come non mai percepibile alla mia mente e al mio cuore duramente provati e di cui, dopo cinquant’anni di vita, avvertivo la presenza quasi palpabile. Poi è accaduto quel che altre volte ho riferito: la voce dell’Altro, la conversione, il perdono di Dio, l’apostolato in tutte le forme e i modi in cui mi fosse stato possibile. Adesso, benché senza compiacermene mi senta sinceramente “piccolo” e “insignificante”, misero di fronte a Dio e stolto in rapporto ai criteri mondani e correnti di giudizio, credo che non tutto quello che avevo pensato nella mia vita di peccatore impenitente fosse o sia sbagliato, e che più e meglio di prima devo oggi assumermi la responsabilità di quel che penso e faccio, la responsabilità di testimoniare il più fedelmente possibile il mio amore per Cristo. Con umiltà, certo, ma senza ipocrisia; badando a non enfatizzare troppo i torti subíti, ma anche senza troppo preoccuparsi di turbare la falsa quiete di quanti per caso si trovassero ad essere coinvolti direttamente o indirettamente da certe doverose e non generiche prese di posizione evangeliche.    

Per esempio, delle mie idee e convinzioni dei tempi andati, confermerei senz’altro il giudizio sul dovere dell’insegnante della secondaria superiore e sullo statuto dell’intellettuale in un contesto scolastico e scientifico-culturale dai tratti profondamente mutati rispetto a quello di alcuni decenni or sono. Come scriveva Eugenio Garin, uno dei più insigni storici novecenteschi del pensiero, il primo e fondamentale dovere dell’insegnante, a prescindere dalle sue particolari competenze disciplinari, non è quello di essere un amico, uno psicologo o un confidente dei suoi allievi, né quello di educare precipuamente al mondo della tecnologia e del lavoro, ma quello di non tradire mai il principio stesso di ogni attività educativa e culturale, cioè il suo valore umano e liberatorio, al di là di ogni specialismo e tecnicismo e al di là di ogni interesse contingente o meramente utilitaristico; è quello di puntare dunque su un’idea di cultura come conquista di una sempre più profonda consapevolezza di sé e delle dimensioni storiche e spirituali universali e specifiche della propria esistenza: una cultura in sostanza con un intrinseco significato etico-morale. Quanto alla domanda sull’odierna identità del cosiddetto intellettuale, essa è ancora più difficile ed insidiosa, perché, se da una parte si può ragionevolmente ritenere che il ruolo dell’intellettuale, quali che siano le sue specifiche competenze, non possa non rimanere saldamente ancorato a precisi compiti civili, dall’altra tuttavia occorre riconoscere che ci sono, di principio e di fatto, diversi modi di essere intellettuali civili, non tutti evidentemente da consigliare. Oggi, per esempio, il nostro paese è pieno di intellettuali civili che però, per diversi motivi che non è qui il caso di elencare, è molto dubbio che con la civiltà, come concetto e come valore, abbiano un rapporto sufficientemente positivo. 

Gramsci distingueva tra intellettuali intelligenti, gli intellettuali in senso positivo, e intellettuali non intelligenti, gli intellettuali in senso deteriore, ovvero quegli scazzonti incapaci di controllo e spirito critici che passano per grandi uomini, per cui, scriveva il pensatore sardo nelle sue “Cronache torinesi”, è inevitabile che, quando «capitiamo noi in mezzo a questo pollaio di tacchini tronfi e pettoruti…, facciamo strillare parecchia gente e ci tiriamo addosso un sacco di improperi e di maledizioni». Penso che l’Italia odierna, da questo punto di vista, sia molto simile all’Italia di Gramsci, nel senso che il suo tratto caratteristico, nonostante tanta ostentata intelligenza e un diffuso ritualismo deontologico, sia non solo l’ignoranza ma anche e soprattutto l’indifferenza che induce un po’ tutti i protagonisti della vita politica e culturale, e non di rado anche religiosa, a strillare di tanto in tanto contro le tante storture del mondo senza una reale e determinata volontà di cambiamento interiore e sociale, facendo propria da una parte l’etica “antisovversiva” di don Abbondio, «contrario per temperamento a tutti quelli che possono suscitare dei guai», turbare cioè «il quieto vivere. E il quieto vivere vuole che le prepotenze siano lasciate consumare, che le ingiustizie siano lasciate consumare», e respingendo dall’altra l’etica del cardinale Borromeo, il quale «aveva, nella fantasia del Manzoni, la scemenza di predicare che per il raggiungimento della giustizia doveva anche farsi perire il mondo. Che per impedire l’arbitrario soffocamento di un uomo, si deve essere pronti a tutte le azioni». 

Anche i cristiani, anche i cattolici, spesso distratti e discontinui, dovrebbero tener presente questa lucida e importante lezione gramsciana, che può ben rientrare in una più ampia lezione evangelica, ma la verità è che troppi sono tra essi quei presunti o reali intellettuali che non dispongono di mezzi conoscitivi e morali adeguati e soprattutto di granitica fede religiosa, per cui alla fine non possono non contribuire pesantemente all’impoverimento graduale e irreversibile della vita civile e spirituale della nazione. Appare spesso arida e inefficace, in particolare, l’intellettualità che viene coltivata in quel mondo universitario italiano che, tra crescenti e sempre più visibili forme di arretratezza e parassitismo, di incompetenza e immoralità, sta assumendo le caratteristiche di vera e propria cloaca a cielo aperto. Specialmente in settori quali le scienze umanistiche ed umane, le scienze sociali e politiche, le stesse scienze giuridiche, c’è una tale approssimazione e un tale disordine didattici, una tale prolissità ed oscurità di esposizione, una tale incapacità di coinvolgimento, che persino gli studenti più brillanti il più delle volte sono costretti a trasformarsi in autodidatti.

Sono certo soggettivamente, e in tal caso è più che sufficiente ai fini della veridicità di quanto sostengo, che non sono parole dettate da un risentimento personale verso un mondo universitario che non mi ha accolto: di questo ho sofferto in passato ma le mie critiche, tutte interne alla mia produzione filosofica, hanno sempre preceduto vicende e giudizi concorsuali. La mia opposizione originaria all’accademia, a certi modi di concepire il sapere accademico, di intendere la funzione o la prassi accademica, a certe forme diffuse e consolidate ma sterili o inadeguate di produzione e trasmissione del sapere, di elaborazione del linguaggio e dello spirito accademici, risale in forma embrionale al tempo in cui ero studente universitario nella facoltà di filosofia di Firenze negli anni compresi tra il 1968 e il 1972, per cui non penso proprio di parlar male dell’accademia perché essa mi abbia trattato male, giacché al contrario mi ha trattato male anche o soprattutto perché ho sempre avvertito il dovere intellettuale e morale di parlare criticamente di tutti quegli incapaci che vi trovano agevolmente lavoro, a danno di pochi veramente meritevoli, nonché delle varie storture didattiche e docimologiche, delle troppe forme di compiacenza e di corruzione che vi trovano costante e felice ospitalità, della eccessiva saccenteria e dei troppi compromessi a livelli troppo bassi che ne alimentano e ne distorcono le fondamentali pratiche della conoscenza. Tutto ciò, peraltro, non mi ha impedito di rimanere sinceramente riconoscente ad un serio e sensibile accademico italiano, Aldo Zanardo, che avrebbe cercato negli anni di sostenermi senza successo anche contro la “rigidità” e l’eccessiva “effervescenza critico-polemica” della mia struttura mentale e spirituale.

Oggi però i miei passati travagli psicologici ed esistenziali non hanno più importanza, perché ho ricevuto nel frattempo, anche se in modo del tutto immeritato, molto più di quel che potessi immaginare e ottenere su questa terra: il perdono di Dio, l’amore di Cristo, la costante vicinanza di Maria, la speranza della vita eterna. Non posso ancora provarlo, ma prima o poi tutto ciò non mancherà di essere provato e svelato. Chi leggerà queste righe deve avere solo pazienza per stabilire che io non sia matto, ma spero che nel frattempo ne tragga anche motivo di incoraggiamento e di conforto personali. Ed è nella nuova ottica di una piena adesione a Cristo e ai suoi insegnamenti che continuo a ritenere necessaria una riforma radicale del sapere e del sistema complessivo di formazione e insegnamento, la quale dovrebbe coincidere con una riforma radicale del nostro stesso modo di considerare la conoscenza e la cultura in rapporto all’esigenza di una effettiva trasformazione spirituale della nostra idea di vita e di convivenza. Che però è ciò che non solo le più o meno trasparenti stanze della politica e le più o meno segrete stanze accademiche non mostrano di desiderare ma che la stragrande maggioranza di noi, abituata a pratiche ipocrite e degenerate di vita associata, almeno per il momento non vuole proprio.

Qui bisognerebbe fare un’analisi molto ampia ed articolata, bisognerebbe dire tante cose sotto il profilo politico, culturale e filosofico, religioso, che però mi porterebbe troppo oltre l’argomento in oggetto. E’ invece il caso di sottolineare che queste critiche non possono non riguardare anche l’intellettualità che è venuta sviluppandosi e viene proposta nelle scuole, negli istituti universitari e nei seminari cattolici, dove l’ovvio orientamento cattolico, tranne rari o sporadici casi, non viene affatto sostenuto da metodologie adeguate di insegnamento e di ricerca, da piani di studio accuratamente selezionati e aggiornati, e diciamo pure da reali capacità di comunicazione e coinvolgimento. C’è troppo nozionismo, troppo schematismo, troppo semplicismo, troppa improvvisazione, troppa prolissità, troppa oscurità, e anche troppa saccenteria: questioni semplici le si fa diventare complicatissime, questioni complesse vengono trattate in modo superficiale e riduttivo, e dietro tante dotte disquisizioni teologiche si rischia continuamente di non sentire più la fede, la fede dei “semplici”, dei “poveri”, dei “piccoli”. La teologia rischia di contare più di Dio, l’insegnamento universitario cattolico più dell’insegnamento evangelico, lo statuto di intellettuale cattolico più dello statuto di intellettuale di Cristo. Anche in campo cattolico vale la distinzione gramsciana: ci sono intellettuali non intelligenti, forse molti, e intellettuali intelligenti, forse pochi. Solo quest’ultimi riescono ad andare al cuore dei problemi senza fronzoli e inutili lungaggini con un linguaggio chiaro, essenziale, convincente, facendo sentire continuamente ma lucidamente la forza e la genuinità della propria fede e attirando realmente l’interesse e l’attenzione di chi ascolta.

A scanso di equivoci, va chiarito che Gesù non discrimina affatto i dotti, i sapienti, i teologi. Come potrebbe il Sapiente per antonomasia, la Verità stessa fatta carne, discriminare tutti coloro che aspirano a conoscere le verità del cosmo e del genere umano, la verità e il senso della nostra vita? Solo che, poiché molto spesso dotti e scienziati, sapienti e teologi, ben oltre le loro dichiarazioni di principio, si sentono orgogliosamente depositari della verità e chiusi ad ogni ulteriore e benefica capacità di ascolto e di approfondimento, egli ringrazia il Padre celeste perché a questa gente tronfia e troppo sicura di sé non ha concesso di conoscere i segreti del suo piano salvifico mentre ha voluto concedere questa opportunità a coloro che, non disponendo di grandi capacità intellettive e di importanti conoscenze teologiche e avendo tuttavia una grande sete di conoscenza e di verità, un grande bisogno di conforto e di amore, si sentono intimamente “piccoli”, “poveri”, “insignificanti”, bisognosi di essere guidati, sostenuti, amati non occasionalmente ma sempre e per sempre. L’intellettuale laico o religioso fa solo demagogia quando si dice criticamente aperto senza esserlo realmente, quando fa il modesto per convenienza senza esserlo invece per indole e convinzione, quando dichiara i suoi limiti solo per nascondere meglio la sua malcelata “volontà di potenza” e la sua inconfessata boria esistenziale. E’ peraltro veramente difficile essere intellettuali intelligenti di Cristo, perché a Cristo non può e non potrà essere nascosto nulla di quel che effettivamente si è e si vuole essere.

Cosa possono fare uomini e donne intelligenti secondo Cristo in un tempo cosí difficile e complicato come il nostro? Possono e devono innanzitutto manifestare la loro fede pregando, inginocchiandosi, mettendo mano generosamente al portafoglio per soccorrere i disagiati, testimoniando la loro fede con la vita e la parola, senza mai pretendere ma senza mai indietreggiare rispetto ai propri onesti e giusti convincimenti etico-evangelici. In sede speculativa e culturale, poi, possono proporre una riflessione critica seria e spregiudicata non solo sugli aspetti etici e simbolici della parola e dell’opera di Cristo, ma anche e soprattutto sul Cristo “scandaloso” che salva prima morendo e poi risorgendo e dunque facendo risorgere, giacché, in ultima analisi, da un punto di vista filosofico non ci si può più esimere cristianamente dal chiedersi e dal chiedere ad alta voce se una migliore conoscenza della nostra razionalità, delle sue capacità e dei suoi limiti, possa essere perseguita da una rinnovata e radicale interrogazione sul possibile significato anche razionale di quello che molti ritengono l’evento evangelico più grandioso e stupefacente: la Resurrezione.    

Se io, come uomo o donna di questo tempo, voglio sapere se devo amare e come devo amare, se devo soffrire e come devo soffrire, se devo sentirmi e in che senso devo sentirmi nel mondo ma non del mondo, se devo pregare e perché esattamente devo pregare, se io voglio rispondere a queste domande fondamentali della mia vita e per la vita di tutti, io non posso non chiedermi costantemente, sia in sede teoretica sia in sede pratico-esistenziale, sia in sede storica, se quell’evento abbia a che fare anche e in che misura con la mia razionalità e con la mia concreta esperienza di uomo qui ed ora (e, naturalmente, con la razionalità stessa del genere umano) e non semplicemente, come troppo spesso si è sostenuto nei secoli, sia in campo laico sia in campo confessionale e/o religioso, con aspettative di natura prelogica o puramente emozionali e vagamente spirituali. Scriveva Blaise Pascal che vi sono ragioni che la ragione non conosce. E se noi provassimo ad ipotizzare che invece, a certe condizioni (logico-metodologiche), la ragione, e dico la ragione (non altro), può cominciare a conoscere quelle ragioni o una parte di quelle ragioni ancora parzialmente o totalmente sconosciute alla ragione dell’uomo occidentale? E se noi provassimo a mettere in discussione con pazienza e sobrietà l’asserzione apparentemente illuminata ed illuminante di Wittegenstein secondo cui di ciò di cui non si può parlare è meglio tacere? Chi potrebbe sentirsi cosí presuntuoso ed arrogante da escludere nuovi ed imprevedibili sviluppi della ricerca critico-razionale? Chi potrebbe rigettare questa istanza nel nome di una ragione effettivamente ragionante? Chi potrebbe tacciarci ragionevolmente di stupidità o di superbia? D’altra parte, a quei fratelli cristiani e cattolici che, certo in buona fede, insistono molto di più sul vangelo della carità che su quello della Resurrezione, bisogna far notare che la carità senza la Resurrezione non è capace di valorizzare al meglio tutte le risorse umane e spirituali del mondo e che la domanda decisiva del credente resta la seguente: a cosa mi servirebbe amare per tutta la vita il mio prossimo e il mio Dio, se sapessi che in fondo un tale atteggiamento spirituale sfocia nel nulla, se sapessi di non poter sperare concretamente di continuare ad amare il mio prossimo e il mio Dio e soprattutto di essere da Lui riamato anche dopo la mia morte? Senza la Resurrezione in cosa consisterebbe la razionalità della mia vita morale e caritativa?

Ecco: tutto questo mi serve a dire anche che forse il problema centrale della nostra epoca comincia ad essere quello di una ulteriore emancipazione della fede da modelli accreditati ma forse già arcaici di razionalità che, in un modo o nell’altro, finiscano per limitare eccessivamente le intrinseche possibilità razionali della fede stessa e per ridurre arbitrariamente la possibilità espansiva dei suoi significati. Anche perché troppo spesso si dimentica che, alla luce della stessa narrazione evangelica, Cristo, scendendo in mezzo a noi e sacrificandosi per noi al fine di salvarci e renderci felici, ha inteso in primis sollecitarci quanto più amorevolmente possibile a riflettere e a fare un uso corretto della nostra ragione teorica e morale, rivelandoci per l’appunto che esistono modi di usare il nostro intelletto e la nostra razionalità molto più utili ed efficaci rispetto a quelli generalmente usati dagli uomini nel corso della loro storia terrena.