La Chiesa gerarchica e la crisi economica

Scritto da Vito Molfetta.

 

Giovanni Avena, direttore di "Adista", nota e brillante rivista cattolica anche se talvolta soggetta a discutibili e fuorvianti prese di posizione, ha ritenuto di muovere pesanti critiche alla Chiesa gerarchica italiana a causa del suo presunto e complice silenzio sulla grave crisi economica e sociale da cui oggi anche il nostro paese è colpito. Su un importante giornale nazionale, egli ha lamentato che la Chiesa, pur agitando la sua dottrina come vessillo di ogni suo intervento non solo sul piano religioso ma anche in ogni ambito della vita civile italiana, dalla fine dell’era democristiana ad oggi ha sempre di fatto beneficiato, sotto governi di destra e di sinistra, di concessioni legislative e finanziarie oltremodo benevoli e vantaggiose che ne avrebbero fatto lievitare notevolmente gli specifici interessi materiali e giuridico-politici e ben oltre quelli pure non trascurabili di natura spirituale.

Questo sostiene Avena secondo il quale nei «cinquant’anni di governi democristiani erano proprio gli esponenti politici democristiani (non tutti e non sempre) che controllavano i confini della missione, e tenevano a bada, spesso riuscendovi, i tentativi della gerarchia di accampare sempre più interessi non per il popolo ma per se stessa, e sempre più diritti di ingerenza nell’evoluzione democratica del Paese: divorzio, aborto, fecondazione assistita, testamento biologico, riconoscimento delle coppie di fatto e dei diritti dei gay, ecc.» (Quello che la Chiesa [non] fa contro la crisi in “Il Fatto Quotidiano” del 20 agosto 2011).  

Inoltre, questo esponente cattolico dichiara che «il “Tevere più largo” che uno stato laico e democratico avrebbe dovuto perseguire, è diventato il “Tevere stretto” degli strettissimi rapporti e intrallazzi tra cardinali di Santa Romana Chiesa e la peggiore specie di faccendieri e mafiosi, membri potenti della squadra berlusconiana» e che, in presenza dell’odierna catastrofe economica a causa della quale il governo Berlusconi impone notevolissimi sacrifici ai cittadini (soprattutto a quelli meno abbienti), la gerarchia ecclesiastica in realtà non avrebbe manifestato né offerto spontaneamente alla comunità nazionale alcuna forma concreta di solidarietà.

E qui cadono i passaggi più specifici e significativi dell’analisi di Avena secondo cui basterebbero «“poche rinunce” per partecipare ai sacrifici di tutto il paese» a cominciare dalla «rinuncia ad una parte del miliardo e passa dell’“ottopermille”, per continuare con i milioni e milioni che la Cei spende in costosissima pubblicità ingannevole per la promozione dell’“ottopermille”. Ingannevole perché quella pubblicità, usando immagini di povertà, fa credere che le donazioni siano destinate prevalentemente alle esibite situazioni di povertà, quando, in verità, solo una piccola percentuale viene ad esse destinata contro la maggiore percentuale destinata agli stipendi dei vescovi e dei ministri del culto. Molti dei quali già godono degli stipendi che lo Stato eroga agli insegnanti di religione nella scuola pubblica (ma tale insegnamento avrebbe nella parrocchia il suo luogo naturale), ai cappellani degli ospedali, e ai cappellani militari (ma l’assistenza religiosa ai malati e ai militari sarebbe compito naturale delle parrocchie nel cui territorio si trovano le caserme e gli ospedali).

         Ma il trattamento economico più lauto dello Stato è riservato al cosiddetto Ordinario Militare. E’ l’arcivescovo capo dei cappellani militari, che indossa i gradi, percepisce lo stipendio e matura la pensione di generale di corpo d’armata. Con il trucco di anticipare il più possibile il susseguirsi dei pensionamenti, agevolando così il moltiplicarsi dei posti, dei lauti stipendi e delle laute pensioni solo dopo pochissimi anni di servizio.
Beneficiario di questo trattamento è il cardinale Angelo Bagnasco, attuale presidente della Cei e arcivescovo di Genova (come lui i suoi predecessori e successori Ordinari militari, che da generali di corpo d’armata in pensione passano a dirigere importanti diocesi italiane o dicasteri vaticani).

Qualcuno ha chiesto al cardinal presidente e ai suoi colleghi vescovi e cardinali di rinunciare a parte dei loro emolumenti come contributo volontario da unire ai sacrifici imposti agli italiani? Sarebbe un gesto non risolutivo della crisi ma certamente una prova simbolica della loro effettiva e affettiva partecipazione ai problemi del Paese e della sua gente.
Del resto non si può dire che l’organizzazione della vita ecclesiastica in Italia debba piangere miseria. Oltre che fruire degli innumerevoli benefici economici, la Chiesa italiana può contare anche sui cosiddetti “diritti di stola”. Sono tutti i servizi che la Chiesa offre a pagamento o con la formula ipocrita dell’ “offerta libera”: battesimi, cresime, prime comunioni, matrimoni, funerali, Sante Messe e oboli vari e diffusi. Tutto esentasse in ragione della sacralità dei servizi. Sarebbe altrettanto sacro condividere le pene quando già si fruisce di una gran parte di beni» (Ivi).

Se siano o non siano fondati e legittimi questi rilievi sarà possibile capirlo dalle eventuali ed augurabili repliche degli interessati a cominciare dalla segreteria dello Stato Vaticano, anche se essi sono sicuramente sbagliati e pretestuosi almeno per quanto riguarda i cosiddetti “diritti di ingerenza” che la Chiesa eserciterebbe a torto nei confronti della vita politica nazionale anche là dove si tratti di valori per un cattolico coerente obiettivamente non negoziabili come “divorzio, aborto, fecondazione assistita, testamento biologico, riconoscimento delle coppie di fatto e dei diritti dei gay”. Ma, ciò precisato, è indubbio che oggi i cattolici, tutti i cattolici e non solo gli addetti al mestiere, siano chiamati, come ieri o più di ieri, a vigilare non solo sulle pratiche del mondo ma anche sulle pratiche adottate ancora innocentemente o già colpevolmente all’interno del suo ovile.