Elio Fiore grande poeta mariano

Scritto da Maria Giulia Galitti on .

 

Elio Fiore era “un poeta cristiano profondamente innamorato di Maria” (M. Di Lorenzo,Un poeta immerso nel mistero di Maria, in “Portale Mariano”, 11 luglio 2009, ma già nel sito “Madre di Dio”, 5 maggio 2008). Era nato a Roma nel 1935 e qui sarebbe morto il 20 agosto del 2002. Lavorò come impiegato presso la biblioteca del Pontificio Istituto Biblico e condusse una vita molto grama sino agli ultimi giorni di vita. Fu molto apprezzato da grandi poeti italiani, a cominciare da Giuseppe Ungaretti che fu il suo primo estimatore, e poi, solo per citarne alcuni tra tanti, da Eugenio Montale, Mario Luzi, Camillo Sbarbaro. La sua produzione poetica, e tutta di segno profondamente religioso, è ampia e sempre toccante e coinvolgente. La stella polare della sua ispirazione poetica ed umana è Maria, la Madre di Gesù, alla quale dedica un’intera raccolta di composizioni mariane: Myriam di Nazareth (Ediz. Ares 1992).

Fiore è «una voce assolutamente unica e originale nel panorama letterario italiano. Un poeta che ha percorso per tutta la vita una lunga strada solitaria, lontano dalle “conventicole” culturali e dalla grancassa dei mezzi di massa. Una strada fatta di preghiera, di ascolto e di laborioso silenzio, con gli occhi rivolti a Maria, “poetessa che spinge il suo sguardo / nei secoli dove la chiameranno beata”» (Ivi). Egli «era talmente innamorato di Maria, da riconoscerne i tratti moderni, attualissimi, nel volto di una homeless (una senza tetto) con figlio al seguito, su una strada addobbata per le feste natalizie, tra gente frettolosa e distratta, di una qualunque città dell’opulento mondo occidentale» (Ivi). Eccone i versi che rompono vigorosamente con tanta «poesia devozionale mariana…oleografica e un po’ dolciastra»: “Maria era tutta vestita di nero, /stava per terra, ferma, composta, / tra le braccia stringeva Gesù. // Sull’affollato corso i passanti / andavano distratti, senza guardare, / senza dare una lira di elemosina. //Maria aveva gli occhi chiusi, / ma due lacrime scendevano / dal viso. Gesù mi sorrideva, // mentre s’accendevano le luci / sul mercato di lusso, sfavillante / di regali, di stelle e di angeli. // Gesù mi stringeva forte la mano / e in quel sorriso innocente, / sentivo tutto il dolore del mondo…”. Come dire: non ci limitiamo ad innalzare preghiere e canti a Maria, a commuoverci intimisticamente alla vista di una sua effigie, a percepirla in un modo sentimentalistico e piuttosto sganciato dai duri moniti evangelici; cerchiamo di onorarla onorando realmente il Figlio, praticando gli insegnamenti del Figlio, e cercando lei stessa non tanto sui piedistalli delle chiese quanto nei volti delle persone sofferenti e bisognose di carità e di concreto sostegno spirituale e materiale. Amiamola nella vita e non a prescindere dalla vita, dalla ruvida e aspra quotidianità della vita.

Fiore ricevette una coroncina del rosario nientemeno da suor Lucia, la pastorella di Fatima, alla quale egli aveva scritto senza permettersi di chiederle né risposta né altro e invece suor Lucia gli avrebbe inviato quel dono bellissimo e inatteso, un dono che avrebbe conservato sino alla morte e al quale si riferisce in questi versi: “Lasciami camminare / Madre di Dio, nel tuo rosario finale, /arco che squaderna luce e tenebre. / C’è tanto buio ancora, figlia di Sion,/ ma voglio, nella salita aspra, superare / ogni prova, per ritrovare mia madre, /la Rosa che s’ingioia nel tuo Segreto:/ l’Amore incarnato dell’Unigenito Figlio…”. Nel presentire la morte imminente, quella «chiamata improvvisa» che egli non aveva mai temuto ma che aveva sempre atteso come momento culminante del ritorno a Dio, cosí reiterava la sua preghiera alla Madre di Dio: “Vergine Madre, io non ti chiedo nulla, / Ma dal Cielo, ti prego, assicura / Mio padre e mia madre che sono attento / Alla legge di tuo Figlio / Al suo amore che mi chiede di perdonare / A chi mi ha fatto del male. / Miryam, in questo antico Ghetto, / Eternamente lordo del sangue di David / Mi preparo con il rosario / Di Lucia dos Santos / Alla tua chiamata improvvisa…”.

Qui, come si nota, si parla di «un antico ghetto, eternamente lordo del sangue di David»: si tratta del quartiere ebraico in cui irruppero i tedeschi il 16 ottobre del 1943. Fiore, che si trovava lí perché la sua casa di san Lorenzo al Verano era stata resa al suolo qualche mese prima da un bombardamento dal quale si era miracolosamente salvato con la madre, aveva allora solo otto anni e dovette assistere al terribile rastrellamento nazista di duemila ebrei tra cui erano moltissime donne, vecchi e bambini. Egli fu cosí testimone, e tale sarebbe sempre rimasto successivamente nella sua vita e nella sua poesia, di uno spaccato già drammaticamente significativo di quell’Olocausto che avrebbe falcidiato il popolo ebraico. E fu ancora nel Ghetto, dove dopo molti anni sarebbe tornato ad abitare, che scrisse quei versi “semplici e terribili”, come li definì Mario Luzi, «che affondano nella carne viva del nostro secolo»: Qui, nel segreto della mia dimora, scava la voce/ della memoria, nel fragore del Tevere cresce la pietà, / viva dal 16 ottobre 1943. Quando il mio piede innocente / fu bagnato dal sangue dei giusti d’Israele. / Quando gli empi urlavano, sfondavano le porte coi fucili…”.

Non c’è commento migliore di quello di Maria Di Lorenzo, che lo conobbe personalmente e ancora oggi ne cura devotamente la memoria:  «La follia dell’Olocausto, la dura memoria dei morti, la fede nella poesia e nei poeti, la ricerca di Dio non in astratto, ma “nel sangue e nel grido della Storia”, il bisogno di guardare e di raccontare, perché la scrittura è un dovere, un imperativo morale, così come un dovere è la memoria. Sono i temi della sua poesia, insieme alla fede nell’invisibile, il primato della persona, la necessità del canto e della profezia, che esprimono il suo stare religiosamente dentro la Storia, con ogni emblema di bene e con ogni metafora del male. “La fede e nient’altro è la vita – scriveva lui –; il resto non conta, è Storia”» (Ivi).

La vita si risolve in un perenne e audace atto di fede: si risolve nel credere che, malgrado la storia continui a dilaniare la dignità e la libertà degli uomini e a generare un male in apparenza sempre più forte del bene, prima o poi il sacrificio del Cristo crocifisso farà sorgere su ogni creatura l’alba di una felicità senza fine: “Io non so come,/ la notte è lunga/ e il tempo un mostro,/ ma so che verrà l’alba/ e la vita degna sarà in ogni uomo,/ e la terra non tremerà più/ e la stella di Betlemme/ ricorderà per sempre che Cristo/ è veramente nato/ per tutti gli uomini./ Io non so come/, la guerra è sulla terra/ e il male sconvolge la Creazione,/ ma so che verrà l’alba/ e ogni uomo avrà il suo pane/ e ogni uomo sulla spiaggia/ riconoscerà Cristo che mangia/ pesce e parla con lui./ Io non so come,/ anche quest’anno è stato orrendo/ di massacri e di morti,/ ma so che verrà l’alba/ eterna, la luce che attende/ ogni creatura, fatta a immagine/ di Dio, canto dell’universo./ Io non so come,/ la notte è lunga/ e il tempo un mostro,/ ma so che verrà l’alba./”.