Ettore Gotti Tedeschi: un banchiere di Dio?

Scritto da Francesco di Maria.

 

Per il banchiere Ettore Gotti Tedeschi il papa Benedetto XVI meriterebbe il premio nobel per l’economia perché egli, più di tanti pure illustri economisti, sarebbe stato capace di individuare la causa originaria e fondamentale dell’attuale crisi economica e finanziaria: ovvero l’inarrestabile decremento demografico. L’attuale crisi sarebbe dovuta principalmente a questo: «al crollo della natalità nei Paesi sviluppati anche se in modo differenziato tra Stati Uniti ed Europa» (Intervista di M. Antonietta Calabrò a Ettore Gotti Tedeschi, in "Corriere della Sera", 8 luglio 2009; e Benedetto XVI e l'economia, L’uomo può cambiare, in L’Osservatore Romano del 22 febbraio 2012). E’ il crollo delle nascite, cerca di spiegare il banchiere del Vaticano, che ha causato la crescita dei costi fissi come le tasse e la diminuzione del risparmio e delle risorse finanziarie, anche se molti analisti non si sono voluti spingere sino all’esplicitazione di  questa verità solo perché «il tema della natalità» è oggi qualcosa di intoccabile, un vero e proprio «tabù» (Ivi).

Non so se sia proprio un tabù. E’ certo però che questo ragionamento non è né chiaro né convincente, perché è vero che i figli sono una risorsa, un potenziale investimento, un capitale suscettibile di generare molteplici e benefici effetti umani ed economici nella famiglia e nella società, e tutto quel che si vuole in termini di possibile produttività, ma questo può valere solo in un mondo normale in cui normalmente, sia pure tra difficoltà e strettoie di vario genere, una qualche occupazione corrispondente alle proprie forze ed attitudini si riesca ancora a trovare, e non già in un mondo sempre più abnorme in cui il lavoro è sempre più raro e precario semplicemente perché vigono parametri di crescita economica e di sviluppo non più compatibili con i bisogni reali delle masse, con l’oggettiva domanda sociale e con idealità di vita civile non piegate ad una idea e ad un uso sempre più distorti e perversi della produttività e della ricchezza.  Ma, nel momento in cui comunque la crisi c’è ed attanaglia la quotidianità stessa di milioni e milioni di persone, è forse ragionevole, è forse saggio recriminare per il fatto che non si fanno abbastanza figli, o non sarebbe più serio ed utile distribuire meglio quello che c’è, in modo che i poveri o i più poveri non muoiano di fame o di malattia o di incuria e stenti?

L’invito divino a “generarsi e a moltiplicarsi” presuppone pur sempre una capacità di discernimento, un senso di responsabilità. E, davanti alla folla che non aveva di che sfamarsi, Cristo prese i pochi pesci e i pochi pani di cui disponeva e trovò il modo di distribuirli a tutti (più di cinquemila persone) e tutti furono completamente sfamati. Questa è sana economia: soddisfare a tutti i costi i bisogni primari delle folle, sia che ci siano sia che non ci siano molti figli. E gli sperperi? Certo, bisogna evitarli e anzi prevenirli con misure adeguate o punirli con misure repressive, ma non per mezzo di politiche vessatorie che sull’altare del debito pubblico sacrifichino l’esistenza di tanta gente che abbia sempre vissuto modestamente. Ora, non potrebbero avvicinarsi un pochino a quella logica di comunione, inaugurata da Gesù, gli istituti di credito, le banche, le associazioni industriali, le commissioni economiche europee e mondiali di tutto il mondo? Che dice Gotti Tedeschi? Non sarebbe meglio che egli, come banchiere cattolico, invitasse innanzitutto tanti suoi colleghi a riformare radicalmente “il sistema”, anziché disquisire astrattamente di cose spirituali e religiose e della necessità che l’uomo cambi se stesso? Egli afferma che Benedetto XVI merita il nobel per l’economia proprio perché è l’unico che abbia posto in relazione la crisi con il crollo demografico. Ma, posto che l’intuizione del papa sia davvero cosí profonda e significativa, e sebbene sia ben noto che il suo pensiero economico non si riduca al crollo delle nascite, sarebbe realisticamente sufficiente a fargli conferire addirittura un nobel per l’economia?

Paul Krugman, che è un vero economista a cui si è ritenuto di poter assegnare il nobel per l’economia, mostra di avere un orientamento diverso da quello indicato dal banchiere dello IOR. Per lui la prima cosa da fare sarebbe quella di cacciare dai massimi organismi decisionali mondiali ed europei, quelli per intenderci che di fatto decidono i destini del mondo ad uso e consumo delle più potenti élites finanziarie del pianeta, i cosiddetti esperti o tecnocrati le cui mirabolanti congetture scientifiche hanno il difetto insuperabile di non tenere in alcuna considerazione i fattori umani e culturali, le specificità nazionali delle varie aree geografiche e dei diversi popoli cui poi vengono applicate le loro diagnosi e le loro decisioni (in “New York Time del 2 dicembre 2011).

Questi tecnocrati, tra cui figurano anche personalità oggi spesso osannate come i nostri Draghi, Monti, e abili fiancheggiatori come il presidente Napolitano e molti esponenti dello stesso partito democratico italiano oltre che un foltissimo gruppo di esponenti del cosiddetto partito della libertà, sono quelli che convinsero a suo tempo l’Europa ad adottare l’euro, ben sapendo che una moneta priva di sovranità statuale sarebbe stata una moneta debole e indifesa perché perennemente esposta alle fluttuazioni dei mercati, e che più recentemente hanno fatto di tutto per convincere Europa e USA a puntare sull’austerità, sostenendo che in un’economia depressa i tagli delle spese ordinarie producono crescita, fiducia degli investitori e dei consumatori. Questa è stata la linea della stessa BCE, che dovrebbe essere la massima istituzione tecnocratica europea, anche se recentemente Krugman (forse sollecitato) ha apprezzato gli sforzi di Draghi di cambiare linea sia pure nei limiti dei suoi oggettivi poteri operativi di nuovo presidente della Banca Centrale Europea (poteri che tuttavia lui stesso concorse a suo tempo a porre in essere).

Ora, quel che dice il papa e che Gotti Tedeschi ripete apparentemente negli stessi termini è, in parte, vero: che bisogna cambiare l’uomo prima che gli strumenti economici. Ma poi tale concetto, per essere veramente compreso, deve essere analizzato ed articolato criticamente, visto che in sé considerato l’uomo è una semplice astrazione e che, a parità di ipotetica integrità morale, ci sono uomini che decidono in un modo e uomini che decidono in un altro, uomini che fanno una scelta e uomini che ne fanno un’altra, con conseguenze molto diverse nell’uno come nell’altro caso non tanto per loro stessi quanto per intere popolazioni. Ha parzialmente ragione Gotti Tedeschi nel dire che sarebbe illusorio cambiare il mondo cambiando gli strumenti economici piuttosto che l’uomo, dal momento che gli strumenti economici di per sé sarebbero “neutrali”.

Parzialmente, perché non sembra rendersi conto che, sebbene il cambiamento interiore dell’uomo sia condizione necessaria di ogni reale progresso umano in tutti gli ambiti della vita, sarebbe assolutamente necessario procedere nel frattempo, anche in mezzo a tanta corruzione e a tanta umana meschinità, ad un cambiamento degli attuali strumenti economico-finanziari, che non sono affatto “neutrali” semplicemente perché furono e continuano ad essere concepiti da uomini, e non genericamente dall’uomo, in funzione di un accumulo illimitato di ricchezza, in funzione del profitto indefinito di determinati individui e gruppi, attraverso strumenti finanziari tanto spregiudicati quanto arbitrari e iniqui (che tali sono perché prodotti dall’avidità e dall’egoismo di uomini contrapposti ad altri uomini) che, se da una parte producono una produzione distorta e forzata della ricchezza, dall’altra sono talmente funzionali ad una distribuzione manifestamente e intollerabilmente unilaterale e ingiusta della ricchezza stessa da non arretrare neppure di fronte alla prospettiva di ridurre alla fame intere popolazioni del mondo sviluppato, cosí come sino a ieri quegli strumenti erano funzionali, malgrado tante chiacchiere di segno opposto, al vergognoso sfruttamento delle risorse umane ed economiche del cosiddetto mondo sottosviluppato.

L’uomo deve cambiare, ma appunto per questo deve rimediare in pari tempo alle storture e alle mostruosità che ha prodotto e sempre produce nel suo cammino storico. Ma se Gotti Tedeschi continua a fare, come fa, l’apologia del capitalismo e a ritenere insuperabili sia il modello di sviluppo sia le regole e gli strumenti finanziari del mondo capitalistico (Gotti Tedeschi-Rino Camilleri, Denaro e Paradiso. L'economia globale e il mondo cattolico, Piemme, 1994) cosí come lo abbiamo sempre conosciuto e lo conosciamo (s'intende anche dire con tutte le sue varianti), oppure in una versione etica del tutto irrealistica e irrealizzabile perché, se e finché lo scopo del sistema è il profitto a tutti i costi per la sopravvivenza o la competitività della fabbrica o dell’azienda, non c’è alcun valore etico che possa frapporsi al suo conseguimento, temo proprio che ad “illudersi” sia lui stesso e che a non capire né l’uomo né il significato dell’annuncio evangelico siano tutti coloro, ivi compresi un certo numero di cattolici, che parlano di uomo e di umanità in modo generico e indifferenziato, senza distinzioni implicite o esplicite di sorta, come se il peccato originale avesse condannato tutti gli esseri umani ad essere disonesti e corrotti nello stesso modo e nella stessa misura e ognuno di noi a desiderare il denaro con la stessa intensità e per gli stessi motivi. Non c’è forse la grazia divina nella vita degli uomini che può essere accolta o respinta da quest’ultimi e che può essere messa a frutto in misura diversa e per fini diversi?

Ma anche ammesso che tutti gli uomini e le donne di questo mondo fossero ugualmente ed inguaribilmente corrotti e portati ad arricchirsi a danno degli altri e senza alcuna compassione per i propri simili, non sarebbe già questo un buon motivo, intendo dire un motivo etico oggettivo oltre che una necessità umana del tutto naturale, per farla finita con un’idea di fatto predatoria di economia e di finanza che si trova alla base di un sistema economico-finanziario capace di produrre costantemente ricchezza periodica ma apparente e via via sempre più ridotta e impoverimento ora relativo ora assoluto e via via sempre più prossimo alla miseria, per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale e adesso anche di quella occidentale? I poteri costituiti di tutto il mondo sanno che, a voler troppo stringere la cinghia, si rischia di sollevare inarrestabili e catastrofici moti di violenza, e anche la Chiesa è consapevole e preoccupata di questo pericolo benché i suoi moniti agli imperi finanziari della terra appaiano ancora inadeguati e insufficienti e soprattutto privi di stabile e ferma determinazione morale e spirituale. Ma si continua a far finta di non capire e a riempire di massicce dosi di colto ma venefico “neoliberismo” le “manovre” dei diversi governi europei e mondiali, ivi compreso ovviamente quello italiano.

La cosa che non può non stupire è che, benché si sia in presenza di un sistema bancario mondiale ormai innegabilmente autoreferenziale e autonominatosi centro politico di comando di tutti i governi del mondo che, sia pure per motivi oscuri o non ancora chiaramente comprensibili, non ritengono di avere altra alternativa a quella di farsene complici, e benché il tema del “signoraggio bancario” sia ampiamente dibattuto su un fondamentale strumento di comunicazione e di libertà come il web, le voci politiche di dissenso e di contrasto a questa situazione, e la stessa voce della Chiesa, dalle alte sfere vaticane al prete di periferia, siano ancora troppo flebili e innocue, troppo pensose e troppo poco risolute a chiamare le cose con il loro nome: “grande crimine” e “grandi criminali”, per usare le espressioni di un giovane e coraggioso giornalista non professionista come Paolo Barnard (ottobre 2011), che in questi termini realistici ha bollato, sulla base di uno studio serio e rigoroso, le forze semiocculte che sono oggi a capo dei processi di spoliazione progressiva che stanno coinvolgendo in particolare i popoli, e più segnatamente i ceti meno abbienti, del mondo economicamente sviluppato o sino a ieri più sviluppato.

Se condanniamo mafiosi e usurai perché poi, di fronte ai cosiddetti mercati e alle più grandi organizzazioni bancarie mondiali, tutti o quasi tutti si mettono a tacere? Perché Gotti Tedeschi non prende posizione contro la grande e spudorata usura mondiale di banche e mercati, ovvero di banchieri e mercanti, contro la pratica di quest’ultimi non solo di imporre interessi salatissimi sui prestiti ma addirittura di imporre interessi sugli interessi ordinari quando un debito sovrano abbia travalicato un certo limite? Ma dove sta scritto che tutto ciò è normale, è lecito, è legale, è morale. Dove? E perché i popoli oltre che i governi sarebbero tenuti a sottostare a tali regole criminali?

Egli sostiene che il capitalismo abbia avuto origini cristiane e che la civiltà occidentale debba molto al capitalismo anche se strada facendo l’economia è venuta divaricandosi e svincolandosi dalla morale cattolica e di conseguenza è venuta producendo la conflittualità e lo stato di crisi che oggi dobbiamo subire. Di più: afferma che «essere ricchi non è un demerito», cosí come «essere poveri non è un merito» e che «il ricco epulone non finí all’inferno per colpa dei soldi, ma per avere lasciato al povero Lazzaro solo le briciole che cadevano dalla sua mensa»; inoltre «Gesù ha avuto bisogno delle donne benestanti che lo mantenevano, di Zaccheo, che rinunciò alla metà dei suoi beni, e dell’apostolo Matteo che era un gabelliere». Quanto alla scelta ascetica di san Francesco d’Assisi, la sua sarebbe stata «una delle vie alla santità, non l’unica».

Se si lascia l’interpretazione del vangelo ad un banchiere, per giunta amico del papa da cui sia pure a torto potrebbe sentirsi legittimato, la fede cattolica ne può ricevere danni incalcolabili e abbastanza simili a quelli che spesso i banchieri arrecano all’economia e ai consumatori. E’ perciò opportuno, senza alcuna albagìa, replicare e precisare. Essere ricchi non è un demerito se ci si dà da fare per mettere la propria ricchezza non nominalmente ma effettivamente a disposizione, e in forme s’intende molteplici e ugualmente caritatevoli, di quanti non per colpa loro ma per oggettiva impossibilità non abbiano di che lavorare e di che soddisfare le necessità proprie o dei propri familiari. Essere ricchi quindi non è un demerito se si è disposti a rinunciare a buona parte della propria ricchezza a favore di chi ha bisogno, ed essere poveri non è un merito solo quando non si sia scelto volontariamente di essere o rimanere poveri, proprio come accadde esemplarmente a san Francesco d’Assisi che volle rimanere povero per condividere evangelicamente nella propria carne oltre che nel proprio spirito la povertà reale dei poveri del mondo: per questo motivo, nessun banchiere, per quanto santo, potrà avere un giorno agli occhi di Dio un merito superiore o uguale a quello del santo di Assisi.

Alle sue origini, poi, il cristianesimo era quello delle comunità fondate sulla comunione dei beni (Koinonìa): tutti e ciascuno erano tenuti ad offrire parte dei propri averi o dei propri beni perché nessuno si trovasse nella condizione di non poter soddisfare le sue necessità personali, per cui in sostanza anche coloro che in origine erano ricchi finivano per non esserlo più o per esserlo in misura molto ridotta, pur continuando naturalmente a disporre di una loro vita personale e privata. Quanto al ricco Epulone, egli finí all’inferno perché dava troppo pochi soldi (le briciole, per l’appunto) al povero Lazzaro che povero era non perché vagabondo o fannullone (perché l’uno o l’altro non sarebbero stati presi certo a modelli esemplari di povertà da parte degli evangelisti) ma perché verosimilmente ridotto alla fame da logiche di potere economico che tutto prendevano dal lavoro altrui e che accumulavano profitto proprio sullo sfruttamento selvaggio e indiscriminato del lavoro altrui, per cui persino al lavoratore più instancabile e devoto alla fine restava poco più della propria misera e squallida sopravvivenza. Qualcosa di simile a quanto succede anche oggi. Lo stesso dicasi per Zaccheo che, nel momento in cui mette a disposizione dei poveri metà dei suoi averi, si rende conto che non è una grande cosa quella di essere ricchi in mezzo a tanta povertà, e per Matteo, che viene chiamato da Gesù alla sua sequela proprio per far capire a lui e a noi che la via che porta alla salvezza non è quella che prevede l’imposizione di tasse esose e più in generale pesi gravosi agli esseri umani come ai contribuenti, ma quella che prescrive la liberazione da ogni tipo di gravame materiale e spirituale (sia quello che su questa terra viene imposto, sia quello che si è costretti a subire).

Gotti Tedeschi è certo un eminente banchiere del Vaticano e nulla possiamo sapere o eccepire circa la sincerità della sua fede cattolica. Quello che pensa e dice sul rapporto tra fede ed economia, tra vangelo e ricchezza, tra cristianesimo e capitalismo, tra Chiesa e società, non è tuttavia sempre convincente e, anzi, talvolta è cosí inesatto da indurre a porsi una domanda: è solo un banchiere di questo mondo o sarà anche un banchiere di Dio e al servizio di Dio, uno di quei banchieri terreni su cui Dio farebbe scendere la sua paterna benedizione senza battere ciglio?