Economia e giustizia sociale nella "Populorum progressio" e nei Padri della Chiesa

Scritto da Francesco di Maria.

 

Se lo sviluppo non è integrale, non è ordinato alla promozione di ogni singolo uomo e dell’uomo nella sua interezza, non è vero e sano sviluppo. O è sviluppo integrale o è sviluppo che può solo arrecare danni all’umanità e ai singoli. Non è sviluppo integrale, quindi, quello che si esaurisce nella semplice crescita economica, posto che questa sia possibile, o meglio in una crescita economica che prescinda da elementari criteri di equità e giustizia sociale. Questo era il nucleo centrale della lettera-enciclica “Populorum progressio” del 26 marzo 1967 di papa Paolo VI.

Non c’è né economia, né crescita economica realmente funzionali al bene delle persone e delle società che non siano subordinate ad una oggettiva ed universale scala di valori, la quale prevede che nessuno possa essere privato “del minimo vitale” e nessuno possa pretendere, specialmente in tempi di crisi, di avere più del necessario. Una saggia e proficua visione economica della società si oppone fermamente a tutte quelle strutture oppressive che derivino dagli abusi del possesso e del potere, dallo sfruttamento dei lavoratori come dall’ingiustizia delle transazioni finanziarie.

Non ci sarà mai vera crescita economica se basata sull’iniquità  e su una pressione fiscale che colpisca principalmente ceti e persone provvisti di risorse economiche inadeguate o sufficienti a condurre una vita appena dignitosa. Per i cristiani, poiché «la regola della giustizia…è inseparabile dalla carità», non esiste diritto che ad essa non sia subordinato; il che significa che gli stessi diritti della proprietà e del libero commercio non possono essere esercitati in opposizione a quella regola: non devono intralciarne ma facilitarne la realizzazione, «ed è un dovere sociale grave e urgente restituirli alla loro finalità originaria».

E, con tono alquanto severo, ammoniva Paolo VI: «la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. In una parola, “il diritto di proprietà non deve mai esercitarsi a detrimento dell'utilità comune, secondo la dottrina tradizionale dei padri della chiesa e dei grandi teologi”. Ove intervenga un conflitto “tra diritti privati acquisiti ed esigenze comunitarie primordiali”, spetta ai poteri pubblici “adoperarsi a risolverlo, con l'attiva partecipazione delle persone e dei gruppi sociali”».

Ne consegue che «il bene comune esige dunque talvolta l'espropriazione se, per via della loro estensione, del loro sfruttamento esiguo o nullo, della miseria che ne deriva per le popolazioni, del danno considerevole arrecato agli interessi del paese, certi possedimenti sono di ostacolo alla prosperità collettiva. Affermandolo in maniera inequivocabile, il concilio ha anche ricordato non meno chiaramente che il reddito disponibile non è lasciato al libero capriccio degli uomini, e che le speculazioni egoiste devono essere bandite. Non è di conseguenza ammissibile che dei cittadini provvisti di redditi abbondanti, provenienti dalle risorse e dall'attività nazionale, ne trasferiscano una parte considerevole all'estero, a esclusivo vantaggio personale, senza alcuna considerazione del torto evidente ch'essi infliggono con ciò alla loro patria».

Purtroppo, lamentava il pontefice, «si è malauguratamente instaurato un sistema che considerava il profitto come motore essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell'economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti. Tale “liberalismo” senza freno conduceva alla dittatura, a buon diritto denunciata da Pio XI come generatrice dell'”imperialismo internazionale del denaro”. Non si condanneranno mai abbastanza simili abusi, ricordando ancora una volta solennemente che l'economia è al servizio dell'uomo» e che tuttavia non è l’industrializzazione in quanto tale ma l’uso politico ed economico che se ne fa nel quadro del sistema capitalistico l’origine o la causa «di tante sofferenze, di tante ingiustizie e lotte fratricide, di cui perdurano gli effetti». 

A volte il problema non è il lavoro o meglio la mancanza di lavoro ma proprio la carenza di una giusta visione politica che fa sí che poi il lavoro stesso conservi un significato ambiguo e ambivalente perché per alcuni fonte di denaro, godimento e potenza, nonché di egoismo, e per altri fonte solo di stentata sopravvivenza, di povertà o di miseria, di disperazione e talvolta anche di rivolta. Bisogna riconoscerlo: «si danno, certo, situazioni la cui ingiustizia grida verso il cielo. Quando popolazioni intere, sprovviste del necessario, vivono in uno stato di dipendenza tale da impedir loro qualsiasi iniziativa e responsabilità, e anche ogni possibilità di promozione culturale e di partecipazione alla vita sociale e politica, grande è la tentazione di respingere con la violenza simili ingiurie alla dignità umana».

In questi casi, molto forte è la tentazione di ricorrere alla violenza o alla rivoluzione, anche se «sappiamo che l'insurrezione rivoluzionaria - salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese - è fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri, e provoca nuove rovine. Non si può combattere un male reale a prezzo di un male più grande». Dev’essere comunque chiaro che «la sola iniziativa individuale e il semplice gioco della concorrenza non potrebbero assicurare il successo dello sviluppo. Non bisogna correre il rischio di accrescere ulteriormente la ricchezza dei ricchi e la potenza dei forti, ribadendo la miseria dei poveri e rendendo più pesante la servitù degli oppressi. Sono dunque necessari programmi per “incoraggiare, stimolare, coordinare, supplire e integrare” l'azione degli individui e dei corpi intermedi. Spetta ai poteri pubblici scegliere, o anche imporre, gli obiettivi da perseguire, i traguardi da raggiungere, i mezzi onde pervenirvi; tocca ad essi stimolare tutte le forze organizzate in questa azione comune. Ma devono aver cura di associare a quest'opera le iniziative dei privati e i corpi intermedi, evitando in tal modo il pericolo d'una collettivizzazione integrale o d'una pianificazione arbitraria che, negatrici di libertà come sono, escluderebbero l'esercizio dei diritti fondamentali della persona umana.

 Giacché ogni programma, elaborato per aumentare la produzione, non ha in definitiva altra ragion d'essere che il servizio della persona. La sua funzione è di ridurre le disuguaglianze, combattere le discriminazioni, liberare l'uomo dalle sue servitù, renderlo capace di divenire lui stesso attore responsabile del suo miglioramento materiale, del suo progresso morale, dello svolgimento pieno del suo destino spirituale. Dire sviluppo è in effetti dire qualcosa che investe tanto il progresso sociale che la crescita economica. Non basta accrescere la ricchezza comune perché sia equamente ripartita, non basta promuovere la tecnica perché la terra diventi più umana da abitare.

I ricchi saranno del resto i primi ad esserne avvantaggiati. Diversamente, ostinandosi nella loro avarizia, non potranno che suscitare il giudizio di Dio e la collera dei poveri, con conseguenze imprevedibili. Chiudendosi dentro la corazza del proprio egoismo, le civiltà attualmente fiorenti finirebbero con l'attentare ai loro valori più alti, sacrificando la volontà di essere di più alla bramosia di avere di più».

Parole limpide, ferme, ineccepibili; parole degne e perfettamente ricettive della Parola di Dio e di Cristo Gesù.

Libero scambio, libero mercato, liberismo o neoliberismo sono tutti concetti equivoci: utili in certe situazioni ma non sempre e dovunque. Le leggi economiche teorizzate dal liberalismo non appaiono più in grado di reggere da sole «le relazioni internazionali». Ogni volta nello scenario storico-economico complessivo intervengono tanti di quei fattori imprevisti o imprevedibili che è assolutamente necessario ripensare o rivedere con intelligenza ed onestà regole e leggi economiche, se si vuole che non l’uomo sia per l’economia ma l’economia per l’uomo, per cui per esempio non è affatto da escludere aprioristicamente che “i prezzi” che si vuole si formino sempre e comunque liberamente sul mercato possano in realtà «condurre a risultati iniqui».

Sempre valido appariva perciò a Paolo VI l’insegnamento espresso da Leone XIII nella “Rerum Novarum”: «il consenso delle parti, se esse versano in una situazione di eccessiva disuguaglianza, non basta a garantire la giustizia del contratto, e la legge del libero consenso rimane subordinata alle esigenze del diritto naturale. Ciò che era vero rispetto al giusto salario individuale lo è anche rispetto ai contratti internazionali: un'economia di scambio non può più poggiare esclusivamente sulla legge della libera concorrenza, anch'essa troppo spesso generatrice di dittatura economica. La libertà degli scambi non è equa se non subordinatamente alle esigenze della giustizia sociale.

Non che si debba o voglia prospettare l'abolizione del mercato basato sulla concorrenza: si vuol soltanto dire che occorre però mantenerlo dentro limiti che lo rendano giusto e morale, e dunque umano.

Che la giustizia, almeno, regoli sempre le relazioni tra capi e subordinati. Che esse siano rette da contratti regolari con obblighi reciproci. Infine, che nessuno, qualunque sia la sua condizione, resti ingiustamente in balìa dell'arbitrio. Combattere la miseria e lottare contro l'ingiustizia, è promuovere, insieme con il miglioramento delle condizioni di vita, il progresso umano e spirituale di tutti, e dunque il bene comune dell'umanità. La pace non si riduce a un'assenza di guerra, frutto dell'equilibrio sempre precario delle forze. Essa si costruisce giorno per giorno, nel perseguimento di un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini».

Un grande papa, una grande enciclica, una concezione rigorosamente cristiana dell’economia e della società, dello sviluppo e della giustizia. Quarantacinque anni dopo i cattolici non possono non richiamarsi alla “Populorum progressio”, solo in parte “datata”, per stabilire cosa sia giusto fare o non fare nell’odierna gravissima congiuntura economica e sociale per rimanere veramente fedeli alla lettera e allo spirito del vangelo.

Ma i cattolici oggi potranno avvalersi, per pensare ed agire rettamente, del supporto di tutta una tradizione cattolica che nell’enciclica di Paolo VI raggiunge uno dei punti più alti. Basterà qui qualche riferimento ad alcuni grandi padri della Chiesa per avere coscienza di come sia preciso e inequivoco il pensiero cristiano anche in relazione alla tematica economica e sociale. Sant’Ambrogio scriveva: «Il povero ti chiede un po’ di denaro e non l’ottiene; ti domanda un pezzo di pane e il tuo cavallo è trattato meglio di lui. Ti dilettano gli stucchi preziosi, mentre gli altri non hanno da mangiare. Quale giudizio, o ricco, attiri sul tuo capo! Il popolo ha fame e tu rinchiudi i granai; il popolo implora e tu abbondi di pietre preziose. Disgraziato, nelle tue mani stanno le sorti di numerose persone: potresti salvarle dalla morte e non ne hai la volontà. Solo con la gemma dell’anello che porti al dito potresti salvare un’infinità di vite umane». San Basilio Magno scriveva: «Se ciascuno si accontentasse del necessario, e donasse ai poveri il superfluo, non vi sarebbero né ricchi né poveri». E Clemente di Alessandria: «Dio fece tutte le cose per tutti; dunque tutte le cose sono comuni. Dio ci diede solo l’uso delle cose. E’ ingiusto, quindi, che uno viva lussuosamente, mentre i più sono poveri».

San Gregorio di Nissa, poi, afferma: «tu sei uomo, ama dunque i tuoi fratelli, non il denaro. Chi ha troppo non è fratello, ma ladro», mentre san Giovanni Crisostomo non esita a dire:  «Ammettiamo anche che il padre non abbia rapinato e che l’oro gli sia spuntato da solo dalla terra. Che vuol dire? Forse per questo le ricchezze sono buone? Per niente. Dirai che non sono neanche cattive. Non sono cattive se non sono frutto di rapina e se ne fai partecipi i poveri».

Sono concetti troppo semplici e troppo difficili, secondo buona parte della sofisticata intellettualità economica contemporanea, da applicare ad una società come la nostra che è una società, si sente spesso dire, troppo complessa e articolata per potersi prestare a trattamenti cosí diretti o immediati e soprattutto cosí contrari a quella logica del profitto che resta, si sostiene, pur sempre al centro di ogni seria attività produttiva e capace di creare ricchezza e quindi benessere sociale. Tra le indicazioni evangeliche e molti degli stessi economisti cattolici sembra crearsi non di rado una specie di iato, di incomunicabilità o di incompatibilità, anche se naturalmente non manca loro mai il modo di razionalizzare e di spiegare che comunque il vangelo conserva una sua perenne vitalità che però non può essere misurata sulla base di particolari contingenze storico-economiche!

Ma in realtà a proporre cose complicate ed irreazzabili non sono né il vangelo né i padri della Chiesa né un pontefice come Paolo VI bensí proprio quegli scienziati, quegli esperti di cose economiche e finanziarie che accettano supinamente e spesso acriticamente o univocamente elementi dati quali il “debito pubblico”, la logica dello sviluppo e della crescita economica indefiniti nel quadro di una sempre più esasperata ricerca di produttività e competitività, il tendenziale aumento dei prezzi e la mitica necessità di riformare di continuo il mondo del lavoro, riversando al momento opportuno la responsabilità e il peso delle ricorrenti crisi e degli interminabili risanamenti finanziari sui ceti più deboli e sui soggetti più provati per mezzo di politiche economiche e fiscali di fatto funzionali alla salvaguardia degli interessi di chi ha già molto piuttosto che di quelli di chi ha poco o non ha nulla. Questa è la verità.

Purtroppo, anche la Chiesa oggi non appare sempre decisa sul da farsi: non è che sia incapace di testimoniare la verità cristiana, di ammonire e di esortare i poteri costituiti a pensare ai meno favoriti dal punto di vista sociale ed economico, di richiamare l’attenzione sui presupposti morali e sulle finalità etiche di ogni seria attività economico-finanziaria, ma la sua azione apostolica e pastorale è frammentaria, discontinua, non dotata di quel fervore e di quella perseveranza evangelici, di quell’inquietante spirito profetico che sono fondamentali perché l’annuncio cristiano si trasformi realmente in luce del mondo e sale della terra.

Non è forse un caso che la lettera davvero ispirata e santa, scritta da un gruppo di vescovi al termine del Concilio Vaticano II e che qui di seguito conclusivamente si riporta, sia rimasta negli ultimi quattro decenni e mezzo generalmente inascoltata o inapplicata persino all’interno della comunità e delle gerarchie ecclesiastiche: «Noi vescovi, illuminati sulle deficienze della nostra vita di povertà secondo il Vangelo, incoraggiati gli uni dagli altri a compiere un passo in cui ciascuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione (…), nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con la determinazione e la forza di cui Dio ci fa grazia, ci impegniamo a quanto segue:

ci sforzeremo di vivere secondo la condizione ordinaria di vita del nostro popolo, per quanto concerne l’abitazione, il cibo, i mezzi di trasporto e quanto vi è connesso.

Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla sostanza della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori appariscenti, insegne in materia preziosa).

Non possederemo né mobili né immobili, né conti in banca, ecc., intestati a nostro nome; e se è necessario possedere, intesteremo tutto alla diocesi o alle opere sociali o caritative.

Affideremo, non appena sarà possibile, la gestione finanziaria e materiale della nostra diocesi a un comitato di laici competenti e coscienti del loro ruolo apostolico, per essere meno amministratori e più pastori e apostoli.

Rifiuteremo d’essere chiamati a voce o in iscritto con nomi o titoli espressivi di grandezza e di potenza (ad esempio eminenza, eccellenza, monsignore). Preferiremo esser chiamati con il nome evangelico di padre.

Eviteremo nel nostro comportamento e nelle nostre relazioni sociali tutto ciò che può dare privilegi, precedenze, o anche soltanto una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (per esempio: banchetti offerti o accettati, classi nei servizi religiosi).

Del pari eviteremo di incoraggiare o di accarezzare la vanità di chicchesia allo scopo di ricompensare o di sollecitare doni, o per qualsiasi altro motivo. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale di culto all’apostolato e all’azione sociale.

Daremo tutto quanto il tempo che sarà necessario al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi operai ed economicamente deboli o meno sviluppati, senza che questo debba nuocere alle altre persone o gruppi delle diocesi. Sosterremo i laici religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai per mezzo della partecipazione alla vita operaia e al lavoro.

Consci delle esigenze della giustizia e della carità, così come delle reciproche interdipendenze di tali virtù, cercheremo di trasformare le opere di beneficenza in opere sociali, fondate sulla carità e la giustizia, attente a tutti e a tutte le esigenze, in umile servizio agli organismi pubblici competenti.

Metteremo tutto in opera perché i responsabili del nostro governo e dei servizi pubblici decidano e diano applicazione alle leggi, alle strutture e alle istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale di tutto l’uomo presso tutti gli uomini, e così giungere ad un nuovo ordine sociale, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio.

Ci impegniamo a dividere nella carità pastorale la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo sacerdoti, religiosi e laici, a fine che il nostro ministero sia un vero servizio. Così ci sforzeremo di fare la nostra “revisione di vita” insieme a loro.

Susciteremo dei collaboratori per essere più degni animatori secondo lo Spirito che non capi secondo il mondo. Cercheremo di essere più umanamente presenti e accoglienti; ci mostreremo aperti a tutti, qualunque sia la loro religione.

Ritornati in diocesi, faremo conoscere ai nostri diocesani la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto, le loro preghiere (in Gauthier Mazzolari Paoli, La collera dei poveri, Torino, Gribaudi, 1967, pp. 121-123).