Islam: testimoniare di più, dialogare di meno

Scritto da Francesco di Maria.

 

Già nel 1974 il Presidente della Repubblica algerina Houari Boumedienne, in un suo pubblico intervento all’Assemblea dell’ONU, informava candidamente il mondo intero, sia pure per rispondere alle preoccupazioni di chi nella stessa sede ipotizzava l’esistenza di un nascosto disegno islamico di penetrazione militare o terroristica in Europa, che «non c’è bisogno di guerre. Basta che i nostri figli vengano in Europa. Poi, saranno i ventri delle nostre donne a dare l’Europa all’Islam». Non un’invasione violenta, dunque, ma un’invasione demografica sarebbe stato il modo di attuare storicamente un detto (“hadith”) attribuito a Maometto: «prima Costantinopoli, poi Roma». Com’è noto Costantinopoli, che oggi si chiama Istanbul, appare effettivamente islamizzata, per cui non c’è musulmano che dubiti che prima o poi anche l’Italia verrà islamizzata e che la bandiera islamica sventolerà su Roma.

Omar Bakri, portavoce del Fronte Internazionale islamico in Europa, ebbe a dichiarare nel 1999: “Grazie alle vostre leggi democratiche, vi invaderemo; grazie alle nostre leggi, vi domineremo» (in “Avvenire” del 14 ottobre 1999, p. 9). Proprio mentre gli islamici facevano dichiarazioni di questo tipo, la condizione dei cristiani in Palestina diventava drammatica, perché, non solo a causa del conflitto israelo-palestinese e di un atteggiamento israeliano per niente ospitale, ma anche a causa dell’indebita e violenta tendenza dell’estremismo islamico ad appropriarsi a basso costo delle proprietà dei cristiani e a vessare in mille modi quest’ultimi, la popolazione cristiana di Gerusalemme risultava di appena il 2% nel 2002 contro il 25% del 1840.

I dati statistici forniti da padre Bernardo Cervelera, direttore di “Asia News”, sono impressionanti: nel 1863 Betlemme è ancora una città quasi completamente cristiana con 4400 cristiani e appena 600 musulmani. Nel 1922 i cristiani erano ben 5838 contro 818 musulmani, ma incredibilmente nel 2002, dopo la nascita dello Stato ebraico, l’inizio del conflitto israelo-palestinese, il potenziamento e l’irrigidimento del fronte islamico in tutta l’area mediorientale a causa del costante aggravarsi della “questione palestinese”, sempre a Betlemme troviamo una minoranza di 12.000 cristiani contro una schiacciante maggioranza islamica di 33.500 musulmani. Sino a qualche anno prima dell’inizio del XX secolo i due terzi della popolazione di Nazaret era costituito da cristiani mentre nel 2002 dei suoi 140.000 abitanti 70.000 sono ebrei, 38.000 musulmani e solo 32.000 cristiani (“Il Timone”, sett.-ott. 2004, p. 18).

Bernard Sabella, membro del Consiglio legislativo palestinese e docente presso l’Università di Gerusalemme, comunicava nel 2005 una previsione impressionante: dal 1948 sono più di 240.000 arabi cristiani ad aver lasciato la Terra Santa; dalla guerra del 1967 è emigrato il 35% della popolazione cristiana palestinese e, in presenza di un conflitto israelo-palestinese che non accenna minimamente ad attenuarsi, si stima che nel 2020 i cristiani potrebbero ridursi ad un misero 1,6% della popolazione totale. Una previsione che veniva confermata da Camille Eid: “Per i cristiani il lento esodo non si arresta” (“Avvenire”, 8 settembre 2005, p. 4). I dati del 2007, rileva  il sacerdote newyorkese mons. Robert Stern, presidente della Missione pontificia per la Palestina, confermano che questa linea di tendenza sembra essere inarrestabile in tutto il Medio Oriente e in particolare nella Palestina: «È un fenomeno per certi versi irreversibile, ma che noi possiamo cercare di circoscrivere. I dati parlano chiaro. Basti pensare alle possibilità che l'Occidente offre, per capire perché tanti cerchino di raggiungere i familiari che hanno trovato fortuna altrove. I cristiani inoltre subiscono una forte pressione sociale, sono considerati stranieri nella loro patria e questo pesa soprattutto sulle aspettative dei giovani» (Intervista di Gianluca Biccini, Sessant’anni di aiuti alle popolazioni palestinesi, in “L’Osservatore Romano” del 15 agosto 2009).

E’ durante la seconda Intifada che la situazione è precipitata con il riaffacciarsi sulla scena palestinese dell’integralismo islamico: il suono delle campane delle chiese cristiane ha finito per essere sovrastato dagli altoparlanti a tutto volume dei muezzin; i cristiani sono continuamente vessati e umiliati, soprattutto perché i musulmani, con la complicità dei funzionari dell’Autorità palestinese e delle sue milizie, si appropriano dei loro beni per mezzo di vere e proprie truffe, che a dire il vero non disdegnano di praticare nei loro confronti anche gli israeliani generalmente insofferenti della presenza cristiana in Terra Santa. Come ha riferito Elisa Pinna nel suo libro “Tramonto del cristianesimo in Palestina” (Piemme 2005), «per ogni cristiano che, per mancanza di lavoro, mette in vendita la casa o il negozio, c’è sempre un ebreo o un musulmano che l’acquista immediatamente» in modo più o meno fraudolento. Né è da credere che, in presenza di ebrei e musulmani, tranne casi non molto frequenti, i cristiani, persino se sacerdoti, possano esprimere liberamente le proprie idee.

La verità è che, specialmente ma non esclusivamente per quanto riguarda i musulmani, parole come democrazia, diritti civili e religiosi, dialogo culturale, sono un totale non senso, accecati come sono dal loro fanatismo pseudoreligioso. Non si può certo generalizzare ma la situazione che spinge i cristiani all’esodo è sostanzialmente questa. Altro che dialogo interreligioso! E’ peraltro evidente che a tale dialogo ebrei e soprattutto musulmani siano fortemente e strumentalmente interessati al di là dei confini dei loro rispettivi territori: ormai solo gli sprovveduti o i nemici di Cristo e del cristianesimo sono favorevoli a che esso venga alimentato e dilatato a dismisura in Occidente e in Europa, essendo essi portati a sottovalutare in modo autolesionistico il pericolo che, nei prossimi decenni, l’antica volontà islamica di egemonizzazione del mondo occidentale, congiuntamente a fenomeni sempre più estesi di immigrazione islamica, venga ormai talmente radicandosi in esso da non poter più essere contrastata neppure con le armi e gli eserciti. Da questo punto di vista, una Turchia, pur propagandata come un modello di democrazia e di pacifica convivenza interreligiosa ma accolta nell’Unione Europea senza garanzie e clausole particolarmente avvedute e lungimiranti, potrebbe fungere da vero e proprio “cavallo di Troia islamico” in Europa e in tutto l’Occidente.

In tal senso, non si può non tener conto anche qui di un macroscopico dato oggettivo: che, prima del genocidio dei cristiani armeni, in Turchia i cristiani costituivano circa il 20% della popolazione, mentre oggi su una popolazione complessiva di 70 milioni di abitanti il 90% di essa è musulmana mentre i cristiani di tutte le confessioni sono appena pari allo 0,6%: che, per i cristiani appunto, non per i cattolici che sono ancora meno ma per i cristiani in genere, significa proprio non poter né dialogare né convivere civilmente ma solo testimoniare in silenzio e spesso eroicamente la loro fede.

Certo, questa situazione si deve anche alla cosiddetta “multinazionale islamica del crimine”, la quale non perde occasione per ricordare violentemente ai cristiani che, se non si convertono con le buone o con le cattive all’Islam, essi non potranno che morire assassinati. Già, ma perché i governi mediorientali non sono capaci di proteggere quasi mai per tempo i residenti cristiani e cattolici dalle frequentissime attività delittuose che si svolgono sotto i loro occhi?  Il più delle volte essi non sono forse collusi direttamente o indirettamente con le frange islamiche più fanatiche e violente? E’ solo questione di “estremismo” o l’estremismo costituisce una delle possibili variabili di una mentalità islamica comunque intollerante, sospettosa e aggressiva verso il “diverso” e verso cristiani e cattolici in modo del tutto particolare? E tutto ciò accade perché il cristiano viene identificato con l’“occidentale” o non piuttosto perché il cristiano è colui che, con la sua semplice professione di fede e pur senza volerlo ostentare, ricorda continuamente agli islamici la falsità e l’inconsistenza della loro fede in Maometto e in Allah? Non è forse vero che, nel migliore dei casi, in Medio Oriente i cristiani, in conformità alle prescrizioni coraniche, sono cittadini di rango inferiore e quindi esclusi dal godimento dei diritti di cui godono i cittadini musulmani? Perché una stortura cosí eclatante non accenna ad essere rimossa? Non è più che evidente il pregiudizio e la discriminante religiosi?

Noi cattolici occidentali, noi che abbiamo ancora la libertà di dire quel che pensiamo, queste cose non possiamo sottacerle e minimizzarle nel nome di un dialogo sempre presunto e mai reale, ma dobbiamo denunciarle con forza pur senza esasperare i toni che potrebbero contribuire a rendere ancora più difficile la permanenza di tanti fratelli e sorelle nei loro luoghi di origine. Chi accetta le persecuzioni fatte ai cristiani accetta le persecuzioni fatte a Gesù stesso e noi non possiamo accettare, con il nostro irresponsabile silenzio o con la nostra mollezza diplomatica, né l’una né l’altra cosa, specialmente se nel frattempo a tutti gli islamici che vengono in Occidente non lesiniamo né accoglienza, né lavoro, né diritti di ogni genere. Anche in questo caso non dovremmo essere candidi come colombe, come dice Gesù, e quindi puliti, onesti, ospitali e solidali verso tutti, ma al tempo stesso astuti come serpenti, ovvero prudenti, realisti, attenti ad esigere opportuni ed efficaci contrappesi?

E, in quanto Chiesa, anziché incoraggiare certo in buona fede ma pur sempre in modo paternalistico e quasi occasionale i cristiani mediorientali a non lasciare le loro terre e a non emigrare altrove, magari alla luce del monito evangelico a non essere “tiepidi” perché “i tiepidi non piacciono a Dio” (forse in questo specifico caso poco pertinente, mi perdoni papa Benedetto, perché i cristiani perseguitati non sono certo evangelicamente “tiepidi” se cercano di ripararsi adeguatamente dalle persecuzioni), non dovremmo cominciare a pensare a soluzioni più concrete come per esempio ad un atteggiamento meno conciliante, meno dialogico, meno diplomatico, meno subalterno, ovvero meno “tiepido” verso quegli stessi governi islamici che appaiono ancora troppo spesso compiacenti o tolleranti circa le continue aggressioni ai cristiani e le privazioni giuridiche cui sono sottoposti? Posso sbagliarmi, ma si può almeno tentare di cambiare modo di relazionarsi con le autorità mediorientali senza continuare a parlare stancamente e inutilmente di “dialogo”, di “tolleranza”, di “pacifica convivenza”, e cercando invece di ottenere, su un piano squisitamente politico, garanzie certe, e quindi anche progressi giuridici e legislativi a favore dei cristiani? E’ possibile, in tal senso, che la Chiesa cattolica e le stesse nazioni cattoliche di tutto il mondo non abbiano buone carte da giocare con fermezza e con sagace abilità?

Quanto poi a certi settori cattolici che fanno dell’“accoglienza” a tutti i costi e dell’“integrazione interreligiosa” ad oltranza il principale vessillo del loro modo di essere cristiani, va ricordato che ogni opera di carità verso gli immigrati e verso i bisognosi in genere va compiuta non per semplice spirito umanitario o per mera solidarietà etico-civile ma nei limiti in cui la nostra fede in Cristo lo consenta, il che implica tra l’altro che non ci sono semplicemente i diritti delle persone da tutelare ma che questi diritti vanno tutelati non a prescindere dai nostri specifici valori religiosi bensí in ossequio a tali valori, la cui difesa pertanto resta un’assoluta priorità. Perciò, se aiutare gli immigrati islamici dovesse favorire, anche solo per mancanza di avvedutezza, un indebolimento oggettivo, diretto o indiretto, della fede delle comunità cristiane occidentali e la progressiva affermazione del credo islamico nei Paesi occidentali, come già oggi sembra stia accadendo in nazioni come la Francia, l’Inghilterra, la Spagna, l’Olanda e in parte l’Italia, i cattolici sarebbero gravemente responsabili di non adempiere il compito principale della missione loro affidata da Cristo: predicare il vangelo per convertire i popoli. E chi tende a sminuire tale fondamentale considerazione, si pone suo malgrado sulla via di una colpevole apostasia.

Per contro, non c’è bisogno di rilevare le responsabilità altrettanto gravi di quei cattolici che restano legati maldestramente ad un’interpretazione unilaterale e riduttiva della carità cristiana, secondo cui quest’ultima non dovrebbe essere esercitata con particolare zelo nei confronti dei nemici di Cristo o degli eretici, quasi che Cristo stesso non ci avesse comandato di amare i nostri nemici e i nostri stessi persecutori.

Ma, insomma, il senso di questo ragionamento è che siamo tenuti a tenere gli occhi ben aperti per evitare sia di discriminare il prossimo sia di amarlo senza più preoccuparsi di amarlo in Cristo e per Cristo. Come si fa a trascurare un avvertimento come quello che pare abbia espresso una volta il cardinale Biffi: «I musulmani vengono da noi, ben decisi a restare quello che sono, in attesa di essere in numero sufficiente per costringerci a diventare come loro»? Non bisogna affatto pensare che tutti gli islamici che vengono da noi siano animati da vero spirito di pace e di amore e, anzi, bisogna sempre tenere a mente che un germe di violenza è già presente nella stessa fede islamica, anche se tale germe in persone di indole particolarmente buona non attecchisce necessariamente.

Ma accade molto spesso, purtroppo, che quel germe dottrinario amplifichi terribilmente le pulsioni distruttive degli islamici e persino di islamici chiamati ad assolvere precise e delicate funzioni istituzionali. Non si può certo dimenticare il coraggioso e realistico esempio cristiano di monsignor Paride Taban, vescovo di Torit in Sudan, il quale, in attesa della visita di Giovanni Paolo II, il 6 febbraio del 1993, anche in qualità di presidente dei Vescovi sudanesi, scrisse pubblicamente al papa e fece sapere successivamente all’opinione pubblica mondiale quanto segue: «Santo Padre, non si faccia abbagliare dai tappeti rossi che mercoledì stenderanno in suo onore i governanti di Kartoum. Sappia che le mani che stringerà grondano sangue di cristiani sudanesi. Sono le stesse persone che hanno scatenato la “Jihad”, o guerra santa, contro i cristiani del Sudan, che non esitano a perseguitare, torturare, uccidere preti, suore, catechisti. Sono le stesse persone che praticano ancora la schiavitù, catturando e vendendo i figli dell’Africa. La tragedia di suor Bakhita, è ancora vissuta da centinaia di persone ogni anno…». Ancor oggi è esattamente questa la situazione di vita dei cristiani e cattolici sudanesi.

A volte, i cattolici tengono talmente alla loro immagine di buoni cattolici da lasciarsi trascinare dalla tentazione di «parlare con convinto entusiasmo di ogni religione, tranne della propria» (V. Messori, “Il Timone”, dicembre 2004, p. 36). Ed è per questo che organizzazioni come la Caritas o la comunità di sant’Egidio, solo per fare degli esempi, omettono poi di segnalare che in buona misura l’immigrazione islamica in Occidente consegue alla situazione di sistematico e vergognoso sfruttamento cui sono sottoposte le stesse popolazioni islamiche da parte di un ristretto numero di “califfi” o di “signorotti” che detengono immense ricchezze personali loro derivanti soprattutto dal possesso e dallo sfruttamento dei giacimenti petroliferi. Non sarebbe il caso che, anziché parlare di diritti da concedere in Occidente agli immigrati islamici, si denunciassero innanzitutto pubblicamente e in tutte le maggiori sedi internazionali le diverse forme di dispotismo e di iniquità economica e sociale vigenti nei territori mediorientali?

Gli islamici protestano violentemente ogni qual volta in Occidente qualcuno si prende la briga di mettere in ridicolo il loro profeta Maometto, anche qui dimostrando in modo incontrovertibile l’inferiorità della loro fede rispetto alla fede cristiana. Certo, non è una buona cosa offendere i sentimenti islamici, ma è forse più tollerabile che i musulmani in Sudan, in Kossovo, in Libano (dove, circa vent’anni fa, vi fu un massacro di cristiani maroniti), in Turchia, in Pakistan, e ancora in Egitto, in Arabia, in Indonesia, in Nigeria, in Kenia, rendano quotidianamente impossibile la vita a migliaia e migliaia di cristiani? E’ ragionevole che i cattolici occidentali, fraintendendo clamorosamente l’evangelico spirito di carità, acconsentano ad una “libera invasione demografica islamica” senza vedere che essa un giorno non molto lontano, anche a causa di un relativo decremento demografico europeo e occidentale in atto, potrà portare ad un radicamento crescente e irreversibile dell’Islam in Occidente e principalmente in Europa, quello stesso radicamento evitato per secoli con le armi e che ora invece potrebbe attuarsi in modo del tutto incruento?

E’ il caso di ribadire: cerchiamo di testimoniare di più e di dialogare di meno (concetto che trovava giustificazione anche nell’ampio materiale documentativo pubblicato nella rivista “Chiesa viva”, con il titolo di “Presenza islamica in Italia”, parti I, II, III, in fascicoli pubblicati tra gennaio e aprile del 2006), pur nella doverosa consapevolezza che l’Occidente non è immune da colpe anche gravi nei confronti dei popoli islamici. Non si possono “rispettare” violenza, terrorismo, massacro, intolleranza, indebita appropriazione, e poiché tutto questo è geneticamente connesso alla fede islamica, non si può rispettare in senso proprio l’Islam tout court. Il rispetto è possibile, anzi necessario, solo da un punto di vista politico. Ma questo non significa affatto che noi cattolici  possiamo tacere o far finta di nulla, perché il silenzio alla lunga diventa, anche politicamente, complice della violenza, del terrorismo, del massacro, dell’intolleranza, della prevaricazione. Non possiamo tacere camuffando sotto ipocrite facciate di carità cristiana l’inerzia, l’indifferenza, l’immobilismo spirituale, giacché tutto questo non può fare altro che favorire il male.

Ha scritto l’antropologa Ida Magli: «non sono le migliaia di turisti in piazza San Pietro a dare il polso della fede cristiana; non sono le funzioni natalizie gremite di fedeli a proclamare la religiosità dell’Europa. Quello che conta è il vissuto quotidiano, e questo vissuto è lontanissimo dal Vangelo, almeno a livello delle leggi e delle classi direttive. Chi è che difende davvero il cristianesimo? A forza di “dialogo” non si sa più che cosa sia quello che ha detto Gesù; e senza Gesù – questo i musulmani lo sanno bene – sarà sufficiente dare qualche buona spallata qua e là, e il cristianesimo sarà ridotto presto all’angolo. Un bell’angolo di buone maniere, in cui tutti si vogliono bene, ma angolo. Questo “volersi tutti bene” è ciò che pensano e che vogliono i leaders, tutti protesi alla mondializzazione e, di conseguenza, all’omogeneizzazione dei costumi, delle religioni, dei popoli. Ma non lo pensano i credenti. Non lo pensano perché non vogliono rinunciare ad essere e a sentirsi “uomini”, con la propria intelligenza, la propria storia, la propria fede, la propria volontà. Dobbiamo davvero starci zitti nel vedere uccidere a tradimento cristiani innocenti che escono da una chiesa?» (Strage di cristiani. L’Europa tace, in “Il Giornale” del 2 gennaio 2011). Ida Magli, per quel che ne so, è una non credente, ma si può forse dissentire?