A cani e porci è inutile parlare di cose sante e delle splendide e preziose verità della sapienza evangelica

Scritto da Francesco di Maria.

 

Ad un certo punto Gesù dice ai suoi discepoli: «Nolite dare sanctum canibus, neque mittatis margaritas vestras ante porcos, ne forte conculcent eas pedibus suis, et conversi dirumpant vos» (Mt 7, 6), vale a dire «Non date cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi». Per gli ebrei cani e maiali erano animali impuri e rappresentavano quanto di più ripugnante si potesse pensare. E quindi le parole di Gesù si devono interpretare come un invito a non sprecare cose materiali e soprattutto non materiali di grande valore dandole a chi obiettivamente non sia in grado di apprezzarle.

Certo, in Matteo, che era un ebreo, i cani e i porci sono i pagani in genere, che generalmente non si facevano scrupolo di maneggiare i beni del mondo e gli stessi precetti religiosi in esclusiva funzione dei loro interessi privati. I pagani del tempo di Matteo erano persone spesso spregiudicate, totalmente indifferenti alla distinzione tra il lecito e l’illecito o tra l’onesto e il disonesto, completamente assorbiti da interessi pratici cui subordinavano strumentalmente le loro stesse rudimentali credenze religiose che risultavano più che altro funzionali ad invocare e ad ottenere superstiziosamente la buona sorte da parte di divinità del tutto fantasiose e racchiuse in rappresentazioni di tipo antropomorfico. I pagani, in sostanza, erano i non ebrei, i non circoncisi, anche se a dire il vero non è che gli stessi ebrei circoncisi fossero sempre irreprensibili in tutte le circostanze della loro vita. Anzi, leggendo i vangeli, non si può non notare come essi fossero spesso peggiori degli stessi pagani.

Ma, con san Paolo, le cose cambiano, perché il messaggio di Cristo viene inteso in un senso più universalistico e quindi tale da poter e dover essere comunicato anche ai pagani, i cosiddetti “gentili”. Ragion per cui, da quel momento in poi, il monito di cui ci si sta qui occupando sarebbe venuto dilatando il suo significato sino a coinvolgere non più questa o quella etnia, questa o quella comunità religiosa, questa o quella categoria sociale, ma tutte quelle persone che, indipendentemente dal loro status, conducessero una vita orientata unicamente o prevalentemente al godimento di beni e realtà terrene senza alcun reale aggancio ad onesti e seri processi di ricerca spirituale e religiosa.

Pertanto, il non dover dare cose sante ai cani e perle ai porci significa che chi ha realmente ricevuto la grazia di capire le più profonde verità dello spirito e di essere in possesso di preziose verità sapienziali non si deve preoccupare di compiere gesti caritatevoli, con parole ed atti, verso persone capaci solo di approfittare della bontà e della sapienza altrui, solo per continuare ad alimentare la propria presunzione o la propria superbia, la propria saccenteria e il proprio narcisismo, e per utilizzare quel che si sentono dire o dare per fini profondamente diversi da quelli di una persona onesta che, avendo bisogno di aiuto e di amore, sappia riconoscere e apprezzare sinceramente sia l’amore sia le conoscenze spirituali ricevuti ed acquisiti in modo completamente gratuito ed inatteso.

Il vangelo, certo, va predicato a tutti, da parte di chi, presbitero o laico, ha ricevuto il dono carismatico della predicazione, dell'insegnamento, dello studio e via dicendo, e innanzitutto agli stessi cristiani; ma con giudizio e sapendo scegliere i tempi e i luoghi, ovvero nei momenti più opportuni, a determinate condizioni e con soggetti realmente predisposti all'ascolto: questo intende dirci Gesù. Se tu hai a che fare con un uomo, non importa se cattolico o non cattolico, che sia notoriamente avido e attaccato ai quattrini e ancora molto lontano dal pensare di dover cambiare vita, è inutile che tu gli proponga di essere più onesto e più generoso verso gli altri e tenti di spiegargli certe parabole evangeliche, perché forse ti dirà che lui è onesto e generoso ma continuerà ad esserlo e ad interpretare quelle stesse parabole pur sempre a modo suo, cioè in un modo del tutto insufficiente o parziale o distorto. Oppure, se tu hai a che fare con una donna che si sente bellissima e dichiara di impegnarsi tuttavia a nascondere la sua bellezza per non voler troppo apparire ma ritenendosi in pari tempo una donna “diversa” da tutte le altre donne in quanto a serietà e a profondità di spirito, pur essendo di fatto separata dal marito che dice peraltro candidamente di non amare, sarà sicuramente destinato al fallimento il tuo tentativo di aiutarla a capire la sua povertà interiore e le sue reali necessità spirituali alla luce di una fede meno esibita e approsimativa e più matura e riflessiva di quella da lei ostentata. Né dovrai insistere nei suoi confronti per non dover scoprire amaramente di essere forse a tua volta interessato e disonesto nella tua opera di carità e di testimonianza.

Se hai avuto il dono di intuire che una persona pur provata dalla vita è ancora tuttavia piena di sé, per te non sarà una buona iniziativa quella di avvicinarla a tutti i costi per convincerla a cambiare modo di pensare e modo di vivere, specialmente se la tua condotta non sia ancora percepita nella sua esemplarità evangelica. E, a maggior ragione, dovrai astenerti dall’interloquire con quanti si sono ormai convinti che Dio, se c’è, non potrà fare alla fine discriminazioni, in quanto consapevole del fatto che anche i cosiddetti “cattivi”, se tali sono stati, saranno stati costretti ad esserlo da circostanze particolarmente avverse o sfortunate della vita.

Che senso avrà mai appellarsi, da parte di qualche vescovo, ai cosiddetti “uomini della mafia”, dal momento che, a differenza di certi terroristi del passato che quanto meno avevano un progetto etico-politico da perseguire sia pure in forme del tutto deprecabili e sbagliate, i mafiosi sino a quando come tali vivono ed operano non sono e non possono certo essere considerati uomini e dal momento che essi continuano imperterriti a coltivare un tipo di religiosità assolutamente ancestrale e disumana e solo strumentalmente connessa alla religiosità della Chiesa cattolica? Forse un senso l’avrà, ma un senso puramente retorico e funzionale a forme di vanitosa gratificazione personale e di pomposa autocelebrazione ecclesiastica.

Nel vangelo di Matteo la perla è immagine del regno di Dio (Mt 13, 45 ss.) e come potrebbero mai sentirsi coinvolti in un ragionamento rigoroso sul “regno di Dio” tanti di noi che biasimano il protagonismo altrui solo e ancora un volta per amore di protagonismo personale, tanti di noi che vorrebbero tenere lezioni di morale evangelica a gente ben più preparata ed ispirata di noi stessi o che ambiscono ad ottenere riconoscimenti sociali e religiosi travalicanti in realtà le proprie effettive possibilità intellettive e spirituali?

Se ci sono persone che non vogliono né la nostra bontà, né il nostro affetto, né la nostra fiducia, ma, sí e no, il nostro rispetto formale e una nostra non belligeranza spirituale, non saremmo abbastanza sciocchi se non lo capissimo e se volessimo dire o dare loro qualcosa per forza, con il rischio che quelle persone facciano poi del nostro donarci un uso cosí bassamente strumentale da rivoltarcelo contro e da azzannarci violentemente? Puri come colombe, ma furbi come serpenti, dice Gesù; a meno che, per testimoniare la nostra fede in lui, non ci sia alternativa al martirio.

Cosa dovremmo dimostrare a quei “cani”, cosa dovremmo donare a quei “porci”? Dovremmo forse dimostrare che siamo “buoni”, dovremmo forse aiutarli ad amare il Signore in modi in cui essi proprio non intendono amarlo e servirlo? Ma perché piuttosto non lasciamo che siano essi a desiderare di ascoltarci, di essere compresi ed amati da noi, di essere da noi aiutati a comprendere e ad amare? Perché non lasciamo che siano essi a dimostrarci di voler realmente santificare la propria vita, che siano proprio essi a dimostrarci concretamente di tenere molto alle nostre perle e di volerle meritare, anziché essere noi a volergliele dare o donare presuntuosamente e con sciocca ostinazione?

E’ un rischio psicologico e spirituale molto alto quello di lasciare che altri, colti o incolti che siano, sfruttino e sviliscano l’umanità e la sapienza evangelica, di cui ci ha dotato il Signore, fino a vedersele rigettate dietro o contro come spazzatura: non solo perché in tal modo una giusta e necessaria autostima potrebbe precipitare, ma anche e soprattutto perché il mandato affidatoci da Gesù è di comunicare e conversare con quelli che vogliono ascoltare ed apprendere, al di là della cerchia delle proprie amicizie e delle proprie conoscenze più collaudate e tranquillizzanti, con quelli che hanno veramente bisogno di fede e d’amore e di imparare a credere e ad amare, non certo con quelli che, ancora idolatricamente sottomessi a forme diverse ma ugualmente pericolose di egocentrismo personale, ostentano un ascolto di cui non sono capaci e un bisogno d’amore che non sanno appagare.

A chi chiede, anche solo con lo sguardo, dev’essere dato; a chi cerca onestamente dev’essere consentito di trovare; a chi bussa umilmente dev’essere aperta la porta: in questi casi non si ha più a che fare con cani o porci ai quali non si debbano gettare le perle. Lo dice sant'Agostino nel "Discorso 60/A".