Gesù e il potere come servizio

Scritto da Francesco di Maria.

 

Gesù sapeva bene quali dinamiche di potere avrebbero costantemente prevalso nella storia degli uomini: dinamiche di potere non finalizzate a servire ma a dominare e ad opprimere i singoli e i popoli. Le forme di tali dinamiche di dominio e di oppressione sarebbero state certo molteplici e diverse, anche perché relative ai diversi stadi dell’evoluzione civile dell’umanità, ma pur sempre fondate su un esercizio tendenzialmente non servizievole o caritatevole quanto arbitrario e iniquo del potere. Per Gesù questo era un dato strutturale e fondamentalmente immodificabile della storia degli uomini e lo riteneva talmente scontato da dire: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono» (Mt 20, 25). “Voi lo sapete”: come dire, è cosí e sarà sempre cosí.

Ma proprio per questo era necessario immettere nella storia umana, segnata dal peccato e dalla violenza di Caino, dei contrappesi che non le facessero mai smarrire completamente la via o la prospettiva della salvezza. Quali contrappesi? Quelli di un potere inteso come servizio, come umile opera di servizio caritatevole ad esclusivo favore degli altri ed eventualmente di  moltitudini popolari alle prese con le proprie naturali e spirituali necessità di vita. Infatti Gesù, pur trovando legittima l’ambizione di grandezza dei suoi stessi discepoli, definisce il potere in termini molto diversi da quelli usuali o consueti: «Tra voi non sarà cosí; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20, 26-28).

Nel Regno di Dio le cose funzionano molto diversamente rispetto al regnum hominis, perché in esso il potere viene conferito esclusivamente a chi si sia sforzato in terra di mettere a disposizione degli altri, nei diversi ambiti di vita e nel modo più umile possibile, i doni o i talenti elargiti da Dio e dalla natura, offrendo generosamente i propri e valorizzando onestamente quelli altrui. Nel Regno di Dio, solo a chi avrà amato la conoscenza e il proprio lavoro senza farne uno strumento di arricchimento e di vanagloria personale, a chi si sarà speso a favore del prossimo pur tra limiti e contraddizioni, a chi avrà cercato di esercitare il potere politico in contrasto con le logiche mondane di prevaricazione e di dominio, a chi in qualità di discepolo o di apostolo del Signore non sarà stato segretamente e reiteratamente desideroso di primeggiare sugli altri per una presunta superiorità spirituale né di occupare cariche autorevoli ma di operare sempre ed esclusivamente per amore di Cristo, a chi sarà stato precluso o sarà stato impedito ingiustamente di rendersi utile secondo le sue effettive capacità e di adoperarsi ad majorem gloriam Dei, solo a costoro verrà conferito il potere di  esplicare caritatevolmente e compiutamente per l’eternità tutte le loro migliori qualità intellettuali e spirituali.

Naturalmente, è molto complicato se non impossibile dire in astratto quale sia il preciso identikit di coloro che rientreranno alla fine in queste categorie di spiriti beati, perché i percorsi esistenziali di ognuno di noi sono molto accidentati, tortuosi, problematici, e perché di conseguenza solo l’occhio di Dio potrà vedere esattamente quel che nessuno di noi, anche se dotato di particolari qualità analitico-intuitive, può scorgere perfettamente nella mente e nel cuore degli uomini. Dio, peraltro, come tutti sanno, può salvare persino chi, sofferente come lui su una croce, venga pentendosi e confessando la sua fede in Cristo un attimo prima di spirare.

Tuttavia, la regola generale, fissata da Dio stesso, è che in cielo vadano coloro che, attraverso propositi sinceri ed atti concreti, si siano realmente prodigati, contro ogni pur comprensibile e inevitabile resistenza egocentrica, nell’esercitare ogni possibile forma di potere, a cominciare da quella psicologica, unicamente in funzione di alti e non infimi interessi di qualsivoglia natura. Questa divina regola generale prevede pure che molti di quelli che, per il loro amore o per l’altrui ingiustizia, in questo mondo hanno perso, possano ben aspirare a diventare cittadini o meglio sudditi liberi e felici del Regno di Dio, mentre molti di quelli che quaggiù hanno vinto per brama di potere siano molto meno favoriti ad accedervi. Può sembrare paradossale ma la giustizia divina che è infinitamente sapiente prevede proprio questo: che tra i vincitori dei “nuovi cieli e della terra nuova” di Dio possano esserci molti sconfitti di questi cieli e di questa terra.

Ovviamente, per il cristiano non si tratta di cercarsi deliberatamente una vita sofferta, sacrificata, mutilata o addirittura immolata sull’altare di una totale privazione volontaria, ma, se non è cristiano di facciata o cristiano “tiepido”, prima o poi egli non può fare a meno di imbattersi in prove tanto difficili quanto decisive per la salvezza della sua anima e per la sua salvezza tout court: e se gli è capitato di essere talvolta o spesso carnefice non potrà non cercare il modo di espiare, mentre se è stato agnello o vittima di discriminazione e di odio saprà farsene una ragione confidando incondizionatamente nella misericordia e nella giustizia di Dio stesso.

Anzi, il cristiano sa che, quanto più la sua unione con Gesù è o diventa profonda, tanto più egli è soggetto a momenti di grande debolezza, a continue esperienze di purificazione interiore, a vere e proprie dolorosissime morti intime, che però sono funzionali a momenti ulteriori e sempre più significativi di grazia e di rinascita spirituale. Il cristiano sa che porre il proprio potere, quali che siano le sue forme e la sua ampiezza, a servizio della verità, della giustizia, dell’uguaglianza, della libertà e della pace tra gli uomini, quando tutti questi valori non siano fraintesi e mistificati, è infinitamente più costoso che porlo al servizio dei propri interessi e delle proprie ambizioni personali. Ma è proprio questa gara di rinuncia e abnegazione che si tratta di vincere in questo mondo (le cui tentazioni deleterie occorre vincere in Cristo e per mezzo di Cristo) per poter aspirare a ricevere la corona di vincitore nell’eterno mondo di Dio.

Da un punto di vista cristiano-cattolico, dunque, il potere in genere e il potere politico in particolare non sono certo da demonizzare in sé, anche per il fatto che essi, in quanto princípi direttivi ed organizzativi della vita associata non ancora snaturati dalla ferita letale del peccato originale, portano pur sempre un’origine divina. Sono invece gli usi distorti, abnormi, iniqui, violenti, di ogni forma di umano potere e più segnatamente di quello politico, specialmente in un’epoca in cui va sempre più assottigliandosi la differenza tra potere politico e potere economico e finanziario, che i cattolici non possono accettare e contro cui non possono che lottare con le armi della verità, della carità, della giustizia e della preghiera. Qui naturalmente si può anche correre il rischio di scivolare verso l’ideologia e verso una ideologizzazione della lotta politica e della stessa lotta spirituale e religiosa per un rinnovamento qualitativo della complessiva prassi politica. Ma non c’è dubbio che i cattolici, persino coloro che rinunciano ad attività mondane di qualunque genere in qualità di sacerdoti ministeriali di Cristo, non possano mostrarsi indifferenti alle sorti anche concretamente politiche dell’umanità e dei singoli popoli e non possano non assumersi, sempre facendo salva l’ipotetica buona fede di ciascuno, la responsabilità delle loro scelte politiche dinanzi a Dio e agli uomini.

Perché, in ultima analisi, tutti, credenti e non credenti, sono disposti a parlare di politica come servizio, ma poi accade spesso che ai proclami di buona politica non seguano atti coerenti e responsabili e che anzi quei proclami vengano miseramente vanificati da comportamenti e scelte ambigui o tutt’altro che in linea con essi o manifestamente antitetici all’idea e al valore cristiani di “servizio”, che beninteso significa “lavare i piedi agli altri”, a coloro che per vivere hanno bisogno di noi come di testimoni fedelissimi della verità e della giustizia in Cristo Signore.

In questo senso, quanto mai opportuno e calzante è, in presenza dell’attuale e grave crisi economica e politico-istituzionale della nostra nazione, il monito lanciato di recente da un pastore della Chiesa quale il cardinale monsignor Bruno Forte, che si è rivolto «alla coscienza di ciascuno dei nostri Parlamentari, quale che sia il gruppo di appartenenza e il complesso di ragioni e d’interessi che si senta autorizzato a rappresentare…», per sottolineare che «in ognuno dei senatori e dei deputati» deve scattare «la consapevolezza morale personale di dover agire e di doverlo fare – come recita l’articolo…  della Costituzione – “senza vincolo di mandato”, in piena libertà, avendo come scopo prioritario assoluto la salvezza della Nazione, il servizio al bene di tutti e specialmente dei più deboli e l’obbedienza alla legge morale, che non può tollerare alibi o prevalenze di interessi personali o di gruppo, mascherati da ragioni politiche alte e sofisticate, che in realtà non reggono al confronto con la gravità delle sfide» (Perché fare il governo è ormai un dovere etico, in “Il Sole 24 Ore” del 14 aprile 2013).

L’invito conclusivo dell’alto prelato cattolico, che non può non essere condiviso dalla comunità cattolica anche se presumibilmente “irrealistico” e destinato a rimanere inascoltato, è che chi non sia in grado di comprendere il significato del suo monito «si faccia da parte, perché evidentemente non “rappresenta la Nazione”, né “esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. La voce del popolo è in questo caso eco evidente del fondamento sovrano e trascendente della Legge morale. Chi non saprà ascoltarla, dovrà rendere conto al giudizio di Dio e a quello della povera gente» (ivi).

A dire il vero, è qui necessario precisare che questo invito vale, al di là delle intenzioni forse in esso inespresse, non solo per i parlamentari di un movimento politico radicale quale il 5Stelle di Beppe Grillo ma anche per i parlamentari di tutti gli altri gruppi politici, i quali, pur di sopravvivere politicamente si sono proprio oggi aggrappati indistintamente alla inopinata e sconfortante rielezione a Capo dello Stato di Giorgio Napolitano. Tanto più necessaria appare questa precisazione alla luce del fatto che la Commissione Episcopale Italiana si sia particolarmente, ma non si sa quanto oculatamente, affrettata ad esprimere il proprio rallegramento per siffatta rielezione.   

Tuttavia, la parte finale dell’invito di monsignor Forte è sicuramente ineccepibile, perché è assolutamente vero che a Dio, ancor più che alla povera gente, ognuno di noi dovrà render conto di ogni sua azione e persino di ogni suo pensiero.