Maria e la famiglia. Tra santità e normalità.

Scritto da Francesco di Maria on . Postato in I miei scritti mariani

 

La santa famiglia di Nazaret è un paradigma di santità ancor oggi per tutte le nostre famiglie, nel senso che essa veicola emblematicamente un importante messaggio evangelico: che alla santità possono aspirare non semplicemente i singoli ma anche tutti i membri di uno stesso gruppo familiare, che quindi esiste una santità individuale ma che può esistere o può essere attuata anche una santità e una forma d’amore familiari, collettive, da cui poi abbiano ottime possibilità di decollare le stesse forme di santità individuale. Bisogna però fugare subito un equivoco: la santità, tanto quella individuale o personale quanto quella familiare o comunitaria e collettiva, non esprime un perfetto stato di perfezione spirituale. Ma, per essere più chiari ed espliciti, la santità non è sinonimo di assoluta perfezione, perché il santo, come il giusto, è colui che certamente tende con tutte le sue forze alla perfezione pur senza mai raggiungerla completamente. Solo in un caso la santità coincide con un’assoluta e totale perfezione e questo caso è quello del tre volte santo ovvero di Dio stesso (che, non a caso, è perfetto non in quanto santo una sola volta ma ben tre volte).

Per quanto si sia impegnata come nessun altro essere umano nel conseguimento della umana perfezione, probabilmente persino Maria dovette pagare un prezzo, sia pur piccolo o del tutto trascurabile, alla sua creaturalità, come si può dedurre da alcune scene evangeliche relative alla sua vita familiare e ai suoi rapporti con Giuseppe e con Gesù. Non fu infatti perfetto inizialmente il rapporto di Maria con Giuseppe, quando essi conobbero momenti di comprensibile ma profonda incomprensione a causa della apparentemente inspiegabile gravidanza della giovane di Nazaret. Non sempre furono perfetti i rapporti tra Gesù ancora adolescente e i suoi genitori: anzi, talvolta, come nel caso in cui egli venne ritrovato nel tempio, i rapporti furono abbastanza movimentati e complicati; non sempre Maria comprese le parole del figlio e non sempre si sentí da lui compresa; qualche volta ella forzò il figlio a fare qualcosa che non avrebbe dovuto e voluto fare e qualche volta si sentí forse offesa dal figlio, pur non dubitando mai dell’amore di Gesù per lei e pur non esitando in alcuna circostanza a seguirne gli insegnamenti e la volontà.

Ma tutto questo, appunto, questa mancanza di assoluta perfezione nel comportamento di Maria come nelle dinamiche quotidiane di vita della Santa Famiglia di Nazaret non sta a significare che in quelle persone e in quella casa non ci fosse vera ed esemplare santità, perché, occorre ribadire, la santità non consiste in una mitologica assenza di difetti e di debolezze, ma consiste nella reiterata capacità di pensare i pensieri di Dio e di tradurli, gioiosamente ma anche faticosamente, in gesti o atti concreti. E, siccome il principale pensiero di Dio è l’amore, non vi è dubbio che in quella casa traboccante d’amore vi fosse stabilmente e pienamente Dio.

Anche in quelle nostre famiglie odierne, forse poche di numero, in cui per grazia divina l’amore è veramente di casa e la fa da padrone, nonostante incomprensioni e difetti che possano comparirvi e talvolta agitarle, può circolare molta genuina santità pur se di tanto in tanto attraversata dalle imperfezioni umane dei suoi membri. Qui non bisogna commettere l’errore di distinguere tra un amore eminentemente spirituale che sarebbe quello verso Dio e un amore umano, che sarebbe necessariamente meno elevato, verso il prossimo e verso i nostri stessi familiari, perché l’amore spirituale verso Dio è in realtà, in notevole misura, quello stesso amore che umanamente viene manifestandosi nelle cose e negli affetti di tutti i giorni.

L’amore verso Dio non potrà mai risultare un amore sommo se l’amore verso il prossimo e verso le normali occupazioni del mondo fosse di natura infima. L’amore verso Cristo è lo stesso amore che noi manifestiamo nelle nostre attenzioni quotidiane, nei  giudizi e negli atti che veniamo esprimendo e compiendo nel corso della nostra vita, oppure non è, non è amore per lui se non in forma del tutto illusoria ed ambigua. Può capitare per contro che l’amore verso i nostri simili, per quanto grande ed intenso, per quanto dotato di enorme carica filantropica o umanitaria, possa alla fine rivelarsi molto più presunto che reale, molto più evanescente di quanto non sia dato di supporre, allorché resti costantemente disancorato rispetto ad un sentimento di fede capace di stabilire un contatto con il Creatore e il Padre di tutte le cose e di introdurre in una qualche forma di spiritualità o di vita religiosa che abbiano appunto in Dio, nell’unico Dio Salvatore e Giudice rivelatosi per mezzo di Cristo, il loro fulcro o il loro principale punto di riferimento. Maria e la sua santa famiglia sono per l’appunto paradigmatici proprio in tal senso.

Maria e la sua santa famiglia stanno ancor oggi ad indicarci che non c’è vero amore verso Dio dove non si sia capaci di fare una carezza sul volto di una persona malata o sofferente, dove una madre non riesca mai a preparare con cura un pranzo o una cena per i propri familiari, dove si resti sempre scontrosi e chiusi al sorriso e a propositi di pacificazione o riconciliazione anche in rapporto a persone da noi affettivamente lontane o a noi particolarmente ostili, dove non ci si sforzi in nessun modo di apprezzare le qualità o i meriti altrui né si manifesti vera volontà di ascolto e di comprensione, e che d’altra parte persino le forme più sincere d’amore per il prossimo, per i poveri, per gli oppressi, rischiano di essere ancora parziali, incomplete, spesso fondate più su inconsci processi di narcisistica o orgogliosa autogratificazione personale che non su schiette e impegnative dinamiche spirituali di pur sofferta dedizione o donazione altruistica, se non trovano alla fine uno sbocco nella percezione di un amore divino come motore, sostanza e scopo di tutta la nostra vita affettiva e spirituale.

Amare Dio significa amare un figlio, un nostro simile, i doni stessi di Dio, in modo disinteressato e onesto e non in modo strumentale o distorto, significa amarli con sincerità anche se a ragione o a torto ci capiti di esprimere la nostra contrarietà o giudizi non sempre sereni e obiettivi nei loro confronti: perché amare appunto, per ciò che riguarda la nostra condizione creaturale, non significa essere già perfetti ma impegnarsi realmente per essere o diventare tali. Gesù non si mise a fare subito il Maestro di sapienza ma se ne stette per molto tempo sottomesso ai genitori, né volle orgogliosamente frequentare i maestri della Legge e trascurare Giuseppe e Maria che furono invece i suoi veri maestri di vita ma, al contrario, per quasi tutta la sua vita volle umilmente apprendere la difficile arte di essere uomo osservando e amando i suoi genitori nelle loro grandi virtù e nelle loro stesse umanissime fragilità. Fu attraverso questo modo di amare che Gesù amò Dio, amò il suo Padre celeste, imparando ad amare anche attraverso i limiti e gli errori di Giuseppe e di Maria e aiutando a sua volta quest’ultimi ad amare il Signore anche o proprio attraverso i propri limiti e le proprie insufficienze.

Grandissimo fu Dio che volle amare l’uomo cosí com’è, nella sua effettiva condizione, senza mai pretendere nulla da lui, ma grandissimi furono anche Maria e la sua santa famiglia che vollero imparare ad amare Dio non magicamente o miracolosamente al riparo da ogni possibile debolezza umana ma attraverso una routine quotidiana spesso travagliata e dolorosa nel corso della quale a Maria, a Giuseppe e allo stesso Gesù non di rado accadde di avvertire un senso di sconforto, di paura e anche di embrionale o marcata contrarietà per le vicissitudini particolarmente drammatiche della loro esistenza

Per un cristiano, la normalità della nostra vita non può non indurre ad una ricerca virtuosa e appassionata della santità, perché una vita normalmente piena di difetti e di difficoltà non può non tendere spiritualmente ad un graduale elevamento delle nostre possibilità umane di ricongiungerci a Dio e di trovare in lui la nostra perfetta felicità, cosí come la santità non esclude ma presuppone l’imperfezione più o meno grande della nostra vita terrena perché in caso contrario, essendo già in questo stesso mondo originariamente santi in Dio, non saremmo necessitati a lottare per diventare santi. Le beatitudini di cui parla Gesù egli le ha imparate non solo dal Padre celeste ma anche da persone normali, come Maria, come Giuseppe, cioè i suoi stessi familiari, e poi come tanti altri che avrebbe conosciuto nella sua pur breve vita, persone non prive di difetti, di paure, di apprensioni di ogni genere o di momenti di collera, ma ugualmente anche se diversamente virtuose e quindi orientate verso la santità perché giuste, perché pure ovvero leali e oneste nel cuore, perché povere o non attaccate al denaro o al potere, perché misericordiose e soprattutto perché fedeli testimoni consapevoli o inconsapevoli della verità di Dio.

Ecco perché non è affatto strano che la santità della famiglia sia perfettamente compatibile con la sua normalità e dunque con l’ordinarietà delle sue interne dinamiche fatte anche di fragilità, incomprensioni, delusioni, angosce. La famiglia anche oggi resta un possibile luogo privilegiato di santità. Affermava tempo fa il padre Ermes Ronchi in una sua bella omelia:  «Anche oggi tante famiglie, in silenzio, lontano dai riflettori, con grande fatica, tessono tenaci legami d'amore, di buon vicinato, d'aiuto e collaborazione, straordinarie nelle piccole cose, come a Nazaret. Sante. La famiglia è il luogo dove si impara il nome di Dio, e il suo nome più bello è: amore, padre e madre. La famiglia è il primo luogo dove si assapora l'amore e, quindi, si gusta il sapore di Dio. La casa è il luogo dove risiede il primo magistero, più importante ancora di quello della Chiesa. È dalla porta di casa che escono i santi, quelli che sapranno dare e ricevere amore e che, per questo, sapranno essere felici».