Maria, il Dio-con-noi e la storia umana

Scritto da Francesco di Maria on . Postato in I miei scritti mariani

 

L’essere umano non può avere una conoscenza diretta della divinità, né può incontrarla o sperimentarla autonomamente e pienamente nel corso della sua esistenza. Né con l’uso del potere, né con pratiche religiose di natura mistica ed ascetica, né in qualunque altro modo sia possibile elevare la propria condizione umana e spirituale, è stato mai possibile storicamente ovviare a questo impedimento naturale. Se, come scrive l’evangelista Giovanni, «Dio, nessuno lo ha mai visto» (Gv 1, 18), è del tutto comprensibile che gli uomini, costitutivamente privi di un’esperienza non già generica ed astratta ma reale e specifica di Dio, non abbiano in se stessi forza e mezzi per accedervi perfettamente.

Solo nel momento in cui Dio vuole manifestarsi sensibilmente, nella carne, nella persona storica determinata di Gesù; solo quando Dio viene mediandosi attraverso Gesù, Dio come Dio ed uomo come gli uomini, e perciò stesso non creato come tutti gli altri uomini ma semplicemente generato; solo in quanto Dio viene quindi annunciato e “rivelato” dal suo Cristo e Figlio unigenito, risulta possibile per ogni essere umano superare quel limite e porsi in diretto contatto con Lui in Cristo e per mezzo di Cristo stesso.

Se Cristo non avesse rivelato il Padre, noi non lo avremmo mai conosciuto nei suoi veri tratti identitari (Mt 11, 27). Da ciò si deduce che, prima dell’avvento di Cristo in terra, tutte le interpretazioni sull’essenza e sulla volontà di Dio, ivi comprese quelle talvolta contenute nelle sacre scritture, erano incomplete, unilaterali, parziali e persino false, salvi facendo nuclei particolarmente ispirati e veritieri di verità divina che Gesù si sarebbe comunque incaricato di spiegare, chiarire, approfondire, enucleare alla luce del significato unitario e complessivo della sua opera salvifica.

Poiché Dio si è fatto uomo per mostrare essenzialmente, con la via della salvezza, in che modo si possa e si debba essere perfettamente uomini, è evidente che solo attraverso un continuo sforzo di essere umani come Gesù, lo si possa propriamente conoscere e incontrare. Gesù, contrariamente ai dotti ebrei che non ritenevano possibile dare un nome alla divinità se non in modo molto vago e approssimativo, rivela che Dio è un Padre e che solo questa immagine di un Dio paterno è capace di stabilire un rapporto di vera comunione tra noi e il Signore. Per parlare del Padre, Gesù non fa metafisica, non fa dottrina, non fa teologia nel senso accademico del termine, ma si limita a mostrarlo attraverso la sua stessa umanità: «Chi vede me, vede il Padre» (Gv 14,9), e, per illustrare in che modo quest’ultimo si relaziona con le persone, fa uso di analogie e di esempi tratti dalla quotidianità e dalla vita stessa degli uomini.

Per sottolineare, ad esempio, quanto egli sia vicino ad ognuno di noi e il carattere fortemente realistico di tale sua vicinanza, Gesù ricorre all’immagine del pastore e del buon pastore (Mt 18,12) o di un contadino (Mc 4,16). Se nell’Antico Testamento il Signore proteggeva il suo popolo come un’aquila che, volteggiando incontrastata e minacciosamente nell’aria, vigila sulla sua nidiata (Dt 32, 11), nel Nuovo Testamento Gesù, per far capire che il Padre è un Dio onnipotente ed autorevole ma non dispotico e non violento, paragona la protezione offerta da Dio al popolo d’Israele alla chioccia e ai suoi pulcini (Mt 23,37 e Lc 13,34).

Il Padre annunciato e rivelato da Gesù è cosí veramente un Dio con noi e in mezzo a noi, là dove queste espressioni ricorrenti nel vangelo di Matteo rompono con quell’esclusivismo religioso secondo cui Dio discriminerebbe le persone in base al loro comportamento o alla loro appartenenza di status. Qui Dio è con tutti coloro che mostrano di voler accogliere il Dio fatto uomo, indipendentemente dalla loro ascendenza etnica, religiosa o sessuale. Dio, l’Emmanuele, sarebbe stato cosí non con il re Erode, i sommi sacerdoti, gli scribi e buona parte degli abitanti di Gerusalemme, ma con i pagani aperti alla verità, con gli emarginati dal Tempio, con i peccatori della peggiore specie ma desiderosi di ricevere e dare un amore non falso e strumentale bensí disinteressato e sincero.

Per la cultura religiosa giudaica un “Dio-con-noi” era impensabile: un Dio padre per buoni e cattivi, per i vicini e i lontani. Ma questo Dio è davvero con-noi non solo perché è di carne ma anche perché nasce dalla carne come ognuno di noi: nasce creaturalmente, pur generato da Dio, dalla carne di Maria di Nazaret e dunque, proprio nascendo da carne di donna, risulta non più divisibile, non più separabile né dal genere umano né da ognuno di noi.

Chi sono i primi ad incontrare questo Dio? Non coloro che, a colpi di concetti e sillogismi dialettici, discettavano o arzigogolavano su Dio; non coloro che, con la superbia del loro potere regale, offrivano animali o riti puramente esteriori e ripetitivi in sacrificio a Dio, ma persone realmente dotte come i magi che, pur osservando e studiando continuamente gli astri o i cieli, non riuscivano tuttavia a dare risposte adeguate alla propria sana inquietudine spirituale, o come i pastori, gente spesso malfamata e respinta dai poteri civili e religiosi anche se sempre dedita al lavoro e residente in villaggi poveri e isolati, e con una grande attesa di riscatto messianico nel cuore.

Questo Dio cioè si lascia conoscere e incontrare da persone semplici, umili, dimesse e bisognose di risposte attendibili e definitive, indipendentemente dal loro credo religioso, dal loro status sociale, dalla loro appartenenza etnica. Persone capaci di omaggiare Dio e la piccola grande donna che lo mette al mondo per volontà del suo Creatore, capaci di lodare e celebrare il Signore che ha voluto essere come uno di loro, vivendo con loro e per loro, non sulla base di un amore “paternalistico”, sentimentalistico, indiscriminato, buono per tutti gli usi non esclusi quelli più ambigui o abietti ed esposto a manipolazioni e mistificazioni di varia natura, ma sulla base di un amore virile da leggere sempre congiuntamente come infinita misericordia verso le creature capaci di pentimento e di reale conversione interiore e come infinita giustizia sia in rapporto al riconoscimento e alla valorizzazione delle opere e dei “meriti” individuali sia in rapporto ad un conclusivo ed inappellabile giudizio di vita o di morte ovvero di assoluzione o di condanna per l’eternità.

I magi e i pastori vanno a genuflettersi al cospetto del loro “Salvatore” non nello splendore di una reggia, non nella sacralità di un tempio o di un santuario, ma nel posto più umano e comune che l’uomo conosca, quello di una casa, e intorno al bambino cui si prostrano in atteggiamento adorante essi non trovano servi o cortigiani al servizio del re o schiere di sacerdoti inneggianti alla maestosità di colui che era stato inviato da Dio come il suo consacrato, né assistono a fenomeni prodigiosi che potessero attestare o certificare immediatamente il suo potere divino.

Magi e pastori, cioè amanti non boriosi ma umili e disinteressati della conoscenza e del sapere in compagnia di persone incolte e socialmente emarginate ma laboriose e ugualmente in attesa di un Dio misericordioso e giusto, trovano dinanzi a sé un Dio che ha le sembianze di un neonato, totalmente indifeso e custodito semplicemente dalle tenerissime braccia materne di una giovinetta di nome Maria. Essi sono testimoni oculari del vero significato dell’incarnazione, vale a dire del fatto che solo ciò che è semplicemente umano, senza gerarchie, senza barriere o pregiudizi, e quindi anche solo ciò che avvicina gli uni agli altri, corrisponde ai disegni di Dio e può promuovere la crescita e la dignità di ogni persona configurandosi ad un tempo come genuina manifestazione del “Dio-con-noi” (Mt 8, 1-17).

Tutto ciò è ben indicativo del cambiamento prodotto da Gesù rispetto a tanta parte della tradizione religiosa. Il Dio Padre, di cui parla, esige che il rapporto tra il credente e Dio sia completamente diverso ed esso viene assumendo una dimensione nuova, perché alla tradizionale sottomissione e ubbidienza al Dio altissimo e Signore delle schiere celesti ora viene abbinata l’idea della comunione col Padre e con i fratelli in un comune vincolo d’amore al Padre e dello sforzo spirituale di assomigliare quanto più possibile al Padre medesimo.

A guidare la vita delle persone non sarebbero state solo e pur necessarie norme esterne, come i dieci comandamenti, ma una legge tutta interiore accesa e alimentata dal Padre e dal suo Santo Spirito anche e soprattutto alla luce e per mezzo dell’opera redentiva compiuta dal Figlio, una legge dell’amore priva di regole codificate e cristallizzate ma ancorata unicamente al cuore di ogni singolo uomo e alle concrete e reali possibilità di esplicazione affettiva e spirituale in ogni cuore contenute.

A beneficio di tanti di noi abituati a pensare che il Signore, alla fine, sia indifferente alle ragioni e ai torti degli uomini, alla loro buona fede o alla loro perfidia, alla purezza o al carattere perverso del loro sentire e del loro agire, in quanto sostanzialmente incline a perdonare sempre e a favorire il perdono reciproco dei suoi figli, alla loro riconciliazione e alla loro unità pur nella divisione o nella discordia dei loro conflitti, è opportuno chiarire e precisare che la paterna e speciale attitudine di Dio a perdonare in modo incondizionato chiunque si mostri sinceramente pentito dei suoi peccati, delle sue colpe e delle sue omissioni, e chiunque cerchi di riscattarsi umilmente ai suoi occhi con atti sinceri e disinteressati d’amore verso di lui e verso il prossimo, non può essere equivocata sino al punto di pensare che sia sufficiente dire “Signore, perdonami perché ho peccato contro di te e contro il mio prossimo” per poterne beneficiare.

Per avere Dio dalla propria parte, non basta pregarlo e chiedergli perdono: non basta, se non siamo capaci di metterci ogni volta in radicale discussione, se non abbiamo ogni volta l’onestà e il coraggio spirituali di riconoscere apertamente che le nostre più segrete intenzioni e le nostre azioni non sono forse cosí limpide e pure come un orgoglio nascosto e inconfessato o una qual certa inconsapevole autosufficienza possono indurci facilmente a ritenere, se la causa di quanti sono più sfortunati e bisognosi di noi viene perorata e sostenuta più dalle nostre labbra e da ipocrite frasi di circostanza che non dai nostri cuori e dai nostri atti quotidiani, se il dover perdonare gli altri viene da noi vissuto e praticato più come una regola meramente protocollare di un cerimoniale cristiano ormai acquisito e consolidato che non come un costante faticoso ed impegnativo esercizio di consapevole e responsabile rimozione persino di risentimenti e di forme di avversione personali che potrebbero risultare umanamente e moralmente del tutto comprensibili e legittimi.

Dio è con noi se noi siamo con Lui, con i suoi insegnamenti, con le sue purissime e non equivoche esigenze di perdono, di carità, di giustizia, di pace. Dio è con noi se noi non bluffiamo quando parliamo di queste cose e se non ci riduciamo ad esercitare farisaicamente vita natural durante il nostro spirito di carità. Infatti Dio, nella sua realtà trinitaria, si è affidato principalmente ad una donna che sapeva magnificarlo per la sua infinità capacità di stare vicino ad umili e ad oppressi non finti ma reali, a poveri e a sconfitti non presunti o immaginari ma seriamente sensibili e aperti alle promesse evangeliche, e che amava avanzare nel mondo e tra i suoi simili allo scoperto, senza ipocrisia, senza maschere e truccature di sorta, senza insignificanti appelli ad un amore tanto universalistico quanto generico ed ambiguo.

L’annuncio di Cristo fu incompreso ieri da molti e rigettato come scandaloso e blasfemo soprattutto da quanti ponevano la sicurezza della loro vita in un sistema religioso pregno di fede apparente nella misericordia e nella giustizia divine ma che in realtà troppo spesso veniva fomentando rapporti di dominio e di dipendenza, esattamente quei rapporti che Gesù sarebbe venuto reiteratamente condannando procurandosi cosí ostilità e morte. Questo è il senso delle parole del prologo di Giovanni: «Venne fra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto» (Gv 1,11).

Maria e Giuseppe avrebbero sperimentato sulla propria pelle la violenza del potere politico e soprattutto religioso che non tollerava alcuna forma di dissenso o contestazione, e la loro fuga in Egitto è immagine di un nuovo esodo (da Erode certamente ma anche e principalmente da una religiosità troppo istituzionale e troppo poco umana e spirituale secondo cui la vergine Maria incinta di Gesù non solo non sarebbe stata vergine ma avrebbe meritato la lapidazione), cioè l’esodo verso la piena libertà che Gesù avrebbe attuato con la sua morte e risurrezione. Il Dio-con-noi è dunque il Dio che si sintonizzò perfettamente con il cuore di Maria, con il suo cuore di grande combattente di Dio, di ineffabile e audace testimone del senso originario e incontaminato della misericordia e della giustizia di Dio.

Ancora oggi il Dio-con-noi cammina con chi si sforza di essere come Maria, di condividere integralmente le sue più profonde aspettative di liberazione, che sono certo di natura spirituale ed escatologica ma che si riferiscono già a concrete e vissute vicende storico-umane.