Monica Lanfranco e le donne

Scritto da Francesco di Maria.

 

Monica Lanfranco è nata a Genova nel 1959, è laureata in filosofia, è autrice di molti libri, e soprattutto si spende molto a favore del movimento delle donne. Il giornale “Il Fatto Quotidiano” la ospita con un suo blog dedicato esclusivamente a questo argomento.  Hanno suscitato, purtroppo, il nostro sbalordito interesse in particolare due suoi articoli: il primo è intitolato “Donne: le gambe aperte e il cervello chiuso” del 23 luglio 2013 mentre il secondo porta come titolo “Stupro: non sono le donne a doversi vergognare” del 20 settembre 2013.

Nel primo articolo la dottoressa Lanfranco esordisce cosí: «Abbiamo, noi femministe, lottato anche perché una donna si potesse mostrare nuda, nei luoghi pubblici, reali o virtuali, senza essere insultata, dileggiata, punita, o persino uccisa per questo? Comincio a rispondere per me, e dico sí: ho lottato (e lotto) contro i pregiudizi sessisti e la miseria violenta del patriarcato, (che assume volti e versioni sempre attuali), anche perché le giovani donne potessero scegliere chi essere, come vestire, cosa fare nel mondo, senza che nessun uomo le obbligasse in alcunché, nel nome della famiglia, di un dio, o della patria». Subito dopo ella rivendica che il femminismo è «una visione critica della realtà, spesso ingiusta e violenta, che ancora affligge donne e uomini a livello globale. Nel mondo le bambine e le donne sono insultate, dileggiate, punite, e uccise solo per il fatto di essere femmine». 

Le donne, spiega, ormai sono stanche di essere solo «metà della mela (quella di valore più infimo)», perché vogliono essere «un soggetto intero», specialmente in relazione alla possibilità di decidere che fare del proprio corpo, circa questioni come l’orientamento sessuale, la gravidanza, la maternità, il matrimonio: in altri termini vogliono essere se stesse nel nome e nel segno di un’assoluta “autodeterminazione”. Autodeterminazione, tiene a precisare, da intendere come sintesi di libertà e responsabilità: «ti autodetermini perché ragioni anche sulle conseguenze dei tuoi gesti, e lo fai perché la tua libertà si mette in relazione con il resto del mondo».

Questo concetto di autodeterminazione femminile comporta anche che non c’è nulla ormai che le donne non possano e non debbano discutere, specialmente nell’odierna società dell’immagine. Ma, qui comincia la parte più audace dell’articolo, «la parola la si prende anche, soprattutto, con il corpo. Viene alla mente la forza evocativa del gesto, silenzioso e però fragoroso in modo inequivocabile, di Amina Sboui, giovane blogger tunisina più volte arrestata e incarcerata per aver messo online una sua fotografia in piedi, completamente nuda. Lei, che rischia la morte solo per questo gesto, chiama il mondo a ragionare sull’irresponsabilità feroce di una visione del corpo femminile che diventa costume, consuetudine, legge, vincolo e condanna. Le donne, in questa visione, si possono vendere e comprare, ma non possono decidere per sé». Però, attenzione, ammonisce Lanfranco, questa volontaria esposizione del corpo femminile non ha niente a che fare con fenomeni di repressione sessuale, di inibizione mascherata delle proprie effettive pulsioni sessuali, peraltro ben messe in mostra dalla propria nudità esibita! 

No, le vere femministe non sono “vagine legnose”, non sono donne “frigide e acide”, secondo la definizione sarcastica che qualcuno ne ha dato, ovvero non sono delle represse sessuali che celano le loro “voglie” dietro le loro orgogliose rivendicazioni dell’autonomia e della libertà femminili rispetto al maschio, bensí cervelli pensanti e, come tali, non ritengono per esempio che sia lecito «invitare le ragazzine a coprirsi il sedere» in quanto, solo coprendoselo in modo adeguato, un eventuale stupro a loro danno non risulterebbe “giustificato”. Le donne hanno tutto il diritto di vestirsi e di spogliarsi come vogliono, dove vogliono e quando vogliono, senza che ciò debba costituire elemento preventivo di colpevolezza per loro.

Questo primo articolo si conclude con un finale davvero spettacolare ed altamente evocativo: quando cioè si esemplifica il tutto facendo riferimento al best seller della femminista Eve Ensler, secondo la nostra intellettuale genovese “tutto fuorché legnosa”, ovvero a “I monologhi della vagina”, che sarebbe niente poco di meno che «un inno contro la violenza sulle donne e sul mondo, lontanissimo dalle semplificazioni del ‘darla’»: è proprio attraverso questa rappresentazione teatrale che può capirsi profondamente come, per quanto riguarda le donne, «in fondo non sono le gambe aperte a fare scandalo: è il cervello chiuso, quello sí, che preoccupa»!

Per esempio, il cervello di una donna non è chiuso ma ben aperto se, a proposito delle tante donne violentate, è capace di esprimere una certezza tassativa, quasi dogmatica: che queste donne, anche se abituate a vestire adamiticamente, ad esibire la propria procacità, a sollecitare gli appetiti sessuali maschili, non devono correre il rischio di aggiungere alla violenza dello stupro subíto anche la violenza del sentirsi in colpa o del provare vergogna per averlo subíto. Secondo la nostra intellettuale psicologa, il cervello di una donna è aperto se resiste ai condizionamenti ricattatori esercitati dal perbenismo borghese nei confronti di quelle donne che sperimentino il dramma dello stupro o della violenza maschile con ragionamenti del tipo: sei sicura che quello che ti è capitato non sia stato provocato da un tuo atteggiamento sconveniente, dalla tua leggerezza o dal fatto che tu fossi decisamente consenziente? Sei sicura, scrive testualmente Lanfranco, «di aver fatto di tutto per evitarlo? Non sarà che c’è qualcosa in te che scatena la violenza? Se non fossi uscita a quell’ora, se avessi indossato un altro abito, se avessi tenuto la bocca chiusa, se non avessi bevuto, se: due lettere potenti per minare la forza e la legittimità di chi, da vittima di un abuso, rischia di diventare complice, o comunque di essere in parte responsabile» (Stupro: non sono le donne a doversi vergognare, 20 settembre 2013).

E continua, convinta di addurre una considerazione particolarmente pregnante e risolutiva: «Sembra incredibile, ma mentre a chi è stata inflitta un’altra ingiustizia (per esempio un’aggressione, un furto, un affronto per questioni legate alla propria religione, o al colore della pelle) non si chiede di fare i conti con il senso di colpa generato dall’ipotesi di essere in qualche modo il fattore scatenante dell’ingiustizia subíta, per le donne violate invece è cosí: in fondo è colpa tua» (ivi). Non è infatti vero che in questo modo il carnefice passi per uno a cui non può non andare la comprensione dell’opinione pubblica e che la maggior parte di “disonore” si sposti dall’aggressore alla vittima? Che è una conclusione in parte vera ma anche parziale o incompleta.

La rivendicazione si conclude con questo pensiero che è o vorrebbe essere anche un grido di battaglia: «Noi donne che abbiamo subíto violenza spesso ci sentiamo in colpa e ci vergogniamo, diventando cosí vittime di una nuova, meschina e a volte peggiore violenza, che ci paralizza, ci rende inermi e nasconde la nostra forza. Anche quando è ‘finita’ a volte continuiamo a sentire la vergogna della nostra esperienza ed è faticoso parlarne. Temiamo che dicendolo alle altre e agli altri verremo giudicate e saremo considerate delle perdenti, ‘sporche’, inadeguate. Come se parlarne danneggiasse la nostra dignità per colpa di chi senza alcun senso della dignità ha commesso contro di noi un crimine. E’ tempo che tutto questo finisca, perché non siamo noi che dobbiamo vergognarci!» (ivi).

Mi permetto di fare qualche considerazione in funzione di una visione cristiana di questa delicatissima problematica. Bisogna certo lottare «contro i pregiudizi sessisti e la miseria violenta del patriarcato, (che assume volti e versioni sempre attuali)», ma non anche nel senso o fino al punto che una donna abbia o conquisti il diritto, come sembra sostenere la nostra interlocutrice, di potersi «mostrare nuda, nei luoghi pubblici, reali o virtuali», non solo perché nel nostro ordinamento giuridico esiste un reato noto come “atti osceni in luogo pubblico” ma anche e soprattutto perché, già secondo una dignitosa etica laica ma soprattutto secondo un’etica cristiana, la tendenza ad esibire pubblicamente la propria nudità è cosa degna di biasimo oltre che fenomeno patologico degno di attento studio psichiatrico.

Tale tendenza può manifestarsi in diversi gradi e forme (la casistica va infatti da atteggiamenti inequivocabilmente scomposti a modi oltremodo discinti di vestire, da un modo di parlare sboccato o fortemente allusivo a sguardi manifestamente lascivi, da prese di posizione apparentemente legittime contro il sessismo maschile ma sostanzialmente originate da frustrazioni di natura affettiva e sessuale fino a condotte deliberatamente licenziose e trasgressive), ma essa naturalmente, benché sia sempre opportuno non perderla di vista in tutte le sue forme, raggiunge un livello patologico e anche moralmente e giuridicamente inaccettabile ove assuma forme di particolare appariscenza o virulenza comportamentale.

Che poi la donna abbia il diritto di fare quello che vuole del suo corpo è concetto quanto meno generico e ambiguo pur alla luce dell’invocato duplice principio di libertà-responsabilità, sia per quanto concerne le questioni sopra evocate dell’orientamento sessuale, della gravidanza, della maternità, del matrimonio, sia per quanto riguarda la questione in generale dell’“assoluta autodeterminazione” personale, non solo perché, com’è noto, tutto si può fare ma non tutto conviene fare ma anche perché sul piano logico l’autodeterminazione o libertà tanto femminile quanto maschile non può essere “assoluta” ma necessariamente relativa, dal momento che, sia nel caso della libertà da, sia nei casi della libertà di e della libertà per, essa è libera di esercitarsi solo in modo relativo (relativo alla entità dei condizionamenti interiori ed esterni rispetto a cui si esercita) e a condizione che la si intenda come rigorosa ricerca conoscitiva e come costante processo morale e spirituale volti da una parte a riconoscere i propri limiti ed errori e dall’altra a perseguire forme sempre più vere e genuine di libertà personale. Questo per dire anche che il gesto di mettersi nuda della giovane blogger tunisina sarà anche pieno di “forza evocativa” ma francamente è molto arduo riconoscere ad esso una qualche funzione effettivamente demistificante e liberante.

Se le femministe siano o non siano “vagine legnose” o donne prive di una normale passionalità erotico-sessuale è e resta un affare esclusivamente loro e quindi del tutto privo di importanza sociale, anche se francamente appare paradossale che esse, polemizzando contro le donne inclini a vivere con “le gambe sempre aperte”, le giudichino proprio per questo “a corto di cervello”. Paradossale perché appare molto difficile conciliare questa critica con la tesi femminista della presunta intangibilità morale e giuridica della libertà femminile di fare qualunque cosa del proprio corpo e, probabilmente, della propria anima. Una cosa è l’intelligenza, una cosa è la rettitudine: la persona più intelligente del mondo può essere un depravato mentre una persona perfettamente integra può anche non essere dotata di qualità intellettive particolarmente eccelse. Nella fattispecie, quindi, si possono trovare teste pensanti e teste non pensanti sia tra le femministe sia tra donne trasgressive nel senso più antico e tradizionale del termine.

Certo, forse il prendere come punto di riferimento della propria posizione “I monologhi della vagina” non sarà forse il migliore esempio di “cervello aperto” e di elevata raffinatezza culturale, ma, come si dice, ognuno fa quel che può: già, perché se, per pensare criticamente, ci sentiamo portati a parlare di “vagina” sia pure in chiave contestativa, è poi difficile non dare l’impressione che la difesa della dignità femminile alla fine si riduca esclusivamente ad un’indiretta e più o meno inconscia esaltazione della  sessualità femminile. Contrariamente a ciò che pensa Lanfranco, le donne non possono evitare di porsi il problema di stabilire, in relazione alla condizione generale di essere umano e a quella specifica di essere femminile, quel che è lecito e quel che non è lecito fare, quel che nelle diverse situazioni della vita conviene o non conviene fare, quel che è più realistico o meno realistico nell’ambito di scelte e atti di vita quotidiana, quel che può permettere realmente alla loro libertà di rimanere fedele alleata del loro senso di responsabilità, indipendentemente dalle evidenti patologie da cui siano affetti eventuali aggressori, carnefici, stupratori.

Uno stupro può capitare anche a santa Maria Goretti, ma altro è, nella consapevolezza della carica sessuale che può emanare la propria corporeità, fare del proprio meglio per evitare “incidenti”, altro è fare decisamente di tutto per sollecitare violentemente i più bassi istinti sessuali di una diffusa categoria di maschi.

Anche alla base di tanti casi di femminicidio, checché ne dicano propagandisticamente e demagogicamente massmedia e pubblica opinione, operano complessi e contorti processi psichici di sottile ma reiterata “violenza” quotidiana (derivante appunto principalmente da quell’insana e vanitosa egolatria che impazza oggi tra uomini e donne di qualunque età e status e che caratterizza spesso molti rapporti tradizionali o “aperti” di coppia), la cui responsabilità non sempre ma abbastanza frequentemente non è solo del maschio ma anche della femmina, fermo restando che in ogni caso un delitto è atto sempre e comunque ingiustificabile e ne porta la più pesante responsabilità chi lo compia.

Ovviamente, quella non trascurabile parte di umanità femminile che si ritrova nelle posizioni di Monica Lanfranco non potrà mai accettare un punto di vista come quello che qui si sta esponendo, anche se sarebbe desiderabile per tutti che prima o poi essa si rendesse conto di quanto sia poco calzante il paragone tra chi abbia «subíto un’aggressione, un furto, un affronto per questioni legate alla propria religione, o al colore della pelle» e chi abbia subíto uno stupro anche a causa di un comportamento leggero, superficiale, trasgressivo e infine irresponsabile. Nel primo caso non si vede proprio perché le vittime dovrebbero fare i conti con un ipotetico senso di colpa, mentre nel caso dello stupro non si può affatto escludere aprioristicamente che una donna concorra di fatto, pur senza ovviamente desiderare un’esperienza reale di stupro ai suoi danni, allo stupro medesimo.