L'omelia come una minigonna

Scritto da Francesco di Maria.

 

E’ vero: non solo in Italia ma un po’ in tutto il mondo le prediche dal pulpito, ovvero le omelie, tendono ad essere o troppo lunghe o troppo corte. Naturalmente il principale criterio per giudicare la qualità e l’efficacia di un’omelia resta pur sempre quello che si riferisce al suo contenuto, al modo in cui viene esposto e illustrato, al linguaggio in cui viene presentato, alla capacità anche psicologica di porgerlo e parteciparlo ai fedeli che ascoltano, ma anche la durata ha la sua importanza, perché non c’è dubbio che, se da una parte, specialmente nei giorni feriali o non festivi, non è saggio approfittare della pazienza di chi amorevolmente, pur pieno di preoccupazioni familiari e di inderogabili impegni attinenti la dura quotidianità del vivere, tiene a partecipare alla santa messa e quindi alla comunione eucaristica, dall’altra anche un’eccessiva dispersività, prolissità, verbosità, ripetitività o anche una semplice mancanza di incisività centrata esclusivamente sulla pagina evangelica del giorno non rendono certo giustizia a quell’esigenza di chiarezza e nettezza evangeliche di cui il sacerdote dovrebbe essere o farsi interprete assolutamente irreprensibile.

Non è lecito tenere inchiodato sul banco un fedele, con una predica di mezz’ora anche di lunedì, solo perché ad essergli illustrata è o sarebbe la Parola di Dio, e dico sarebbe nel senso che talvolta il celebrante la usa strumentalmente e maldestramente confondendola con la sua propria noiosa o fumosa parola personale, né si può tollerare che il pulpito sia adoperato come sfogatoio personale sia pure all’ombra del vangelo.

D’altra parte, è pur vero che non tutti i presbiteri siano tenuti necessariamente a possedere eccelse qualità oratorie o predicatorie e che ognuno cerca di fare quel che può. Che sarebbe una giustissima osservazione se non fosse per il fatto che non sempre il presbitero più “limitato” ammette con se stesso di esserlo, comportandosi di conseguenza, e che il presbitero meglio “equipaggiato” ha la buona creanza di non trasformare non già la Parola di Dio ma il suo commento alla Parola di Dio in una manifestazione di immodestia o di esibizionismo personale. Magari i presbiteri facessero sempre quel che veramente “possono”! La Chiesa sarebbe molto più ricca di cultura religiosa, di spirito profetico e di santità.

Non può non osservarsi che le norme ecclesiastiche ufficiali, benché specialmente sotto il governo pontificio di Benedetto XVI la gerarchia della Chiesa si sia sforzata di raccomandare ai preti di proporre omelie né troppo brevi e insignificanti né troppo lunghe e tediose, persino indicando una durata massima di 5 o 6 minuti per le omelie dei giorni non festivi e di non più di 15 minuti per quelle dei giorni festivi, non forniscono al riguardo regole precise e men che meno ingiuntive, e questo è in parte inevitabile dal momento che le aspettative delle assemblee ecclesiali variano da una cultura all’altra o da un contesto sociale ad un altro. Ci sono culture e contesti che prediligono lunghi discorsi, e culture e contesti per i quali invece ci si comincia a spazientire se l’omileta tende a dilungarsi troppo e magari anche su aspetti non del tutto attinenti il brano evangelico previsto per quel dato giorno liturgico. 

Secondo quel che si legge all’articolo n. 24 della Introduzione al Lezionario, l’omelia «sia che spieghi la parola di Dio annunziata nella Sacra Scrittura o un altro testo liturgico, deve guidare la comunità dei fedeli a partecipare attivamente all'Eucaristia, perché "esprimano nella vita ciò che hanno ricevuto mediante la fede". Con questa viva esposizione la proclamazione della parola di Dio e le celebrazioni della Chiesa possono ottenere una maggiore efficacia a patto che “l'omelia sia davvero frutto di meditazione, ben preparata, non troppo lunga né troppo breve, e che in essa ci si sappia rivolgere a tutti i presenti, compresi i fanciulli e la gente semplice”» (Quanto lunga deve essere un'omelia? Risponde padre Edward McNamara, professore di Teologia e direttore spirituale a Rochester, New York, in “Zenit” del 30 agosto 2013).

Il che significa, secondo il teologo e liturgista americano padre Edward McNamara, che, in linea di principio, «si devono evitare omelie generiche ed astratte, che occultino la semplicità della Parola di Dio, come pure  inutili divagazioni che rischiano di attirare l’attenzione sul predicatore piuttosto che al cuore del messaggio evangelico. Deve risultare chiaro ai fedeli che ciò che sta a cuore al predicatore è mostrare Cristo, che deve essere al centro di ogni omelia. Per questo occorre che i predicatori abbiano confidenza e contatto assiduo con il testo sacro; si preparino per l’omelia nella meditazione e nella preghiera, affinché predichino con convinzione e passione. L’Assemblea sinodale ha esortato che si tengano presenti le seguenti domande: “Che cosa dicono le letture proclamate? Che cosa dicono a me personalmente? Che cosa devo dire alla comunità, tenendo conto della sua situazione concreta?”. Il predicatore deve lasciarsi “interpellare per primo dalla Parola di Dio che annuncia”, perché, come dice sant’Agostino: “È indubbiamente senza frutto chi predica all’esterno la parola di Dio e non ascolta nel suo intimo”» (ivi). 

Ovviamente l’omelia deve essere curata con particolare attenzione soprattutto per ciò che concerne le sante messe domenicali e le solennità, pur senza del tutto trascurare di fare qualche breve ed appropriato commento durante le messe per cosí dire “ordinarie”. In definitiva essa, sempre tenendo conto delle caratteristiche di serietà ponderatezza e incisività sopra indicate, non deve essere, specie di domenica e nelle feste comandate, né troppo breve (tipo uno o due minuti) né troppo lunga (tipo 25 o 30 minuti) soprattutto perché dev’essere proporzionata all’intera celebrazione, dove è molto facile capire che non ha senso predicare per 20 minuti per poi dedicare solo 4 o 5 minuti alla preghiera eucaristica.

Tutto quel che è stato scritto sin qui sull’omelia era forse anche ciò che, già alcuni decenni or sono, pare abbia espresso con un’espressione forse non del tutto appropriata ma certo spiritosa, provocatoria e significativa un colto arcivescovo calabrese di origine sarda, il quale, si racconta, rivolgendosi una volta ad un sacerdote allora giovanissimo e oggi ancora vivente nella città di Cosenza, gli disse: “senti, ti devi ricordare che le nostre omelie devono essere come le minigonne: aderenti, corte e attraenti”. Intendeva dire: aderenti al testo letto e alla realtà generale e particolare in cui vive una determinata comunità parrocchiale, corte ma non adamitiche per una giusta e doverosa esigenza di sobrietà verso Dio e verso se stessi e di rispetto verso l’assemblea dei fedeli, attraenti in quanto chiare essenziali istruttive e possibilmente coinvolgenti.

In un periodo storico in cui le minigonne erano già ben in mostra e facevano molto parlare di sé, il dotto prelato intendeva altresí sottolineare che, se la Chiesa cattolica avesse voluto opporsi efficacemente a quella moda superficiale e pruriginosa, i suoi sacerdoti avrebbero dovuto essere in grado di proporre, tra l’altro, anche omelie almeno altrettanto capaci, e sia pure in un senso spirituale profondamente diverso, di suscitare nei fedeli e magari anche in qualche non credente la stessa attenzione, la stessa curiosità e lo stesso stupore delle minigonne.