Quella vergognosa "spina nella carne"

Scritto da Francesco di Maria.

 

L’essere umano vive nella carne, ovvero nella corporeità, nella psichicità, nella istintualità, nella sensorialità, nella sessualità, e al tempo stesso nella intellettività, nella sensibilità, nella affettività, nella moralità e nella spiritualità. L’uomo e la donna, sin dalla creazione divina, non sono esseri puramente spirituali ma esseri carnali in cui è stato impresso da Dio il dono della libertà e quindi anche il bisogno infrenabile di purificare e di elevare la loro condizione umana, a partire dai suoi dati biologici elementari e dalle sue costitutive e primarie necessità naturali, verso stadi esistenziali sempre meno caratterizzati da un naturale ed istintivo egocentrismo soggettivo e sempre più aperti alla dimensione della carità, dell’amore gratuito, del donarsi disinteressato sino all’estremo sacrificio di sé e quindi alla santità.   

Dunque, l’essere umano che vuole spiritualizzare la sua vita in e per Cristo, non è una persona che debba mortificare se stesso in modo innaturale e ossessivo o che possa mettere da parte, anche volendo, la sua carne, ma piuttosto una persona che, attraverso la preghiera incessante e un continuo esercizio di intelligenza e volontà, cerca di spiritualizzare i suoi bisogni carnali, da quelli semplici a quelli complessi, cioè di viverli e di soddisfarli in modo sempre più misurato, più sobrio, più controllato, in funzione di un modo di essere nella carne in virtù del quale si avvertano sempre meno gli appetiti terreni e si faccia sempre più spesso ed intensamente offerta della parte o delle parti migliori della propria carnalità a favore non di sé ma degli altri e, al tempo stesso, ad majorem gloriam Dei.

Pertanto, in questo senso, lo spirito non è il contrario della carne né la carne è il contrario dello spirito, ma lo spirito dell’uomo non può sussistere ed esplicarsi se non nella carne né elevarsi qualitativamente se non per mezzo di sane attitudini carnali quali un certo uso della mente, del sentire e del volere, al fine di neutralizzare le spinte carnali più pulsionali e passionalmente negative.

La carne è il campo su cui si gioca la partita della nostra spiritualità: a seconda dell’uso che facciamo della nostra sensibilità carnale, noi avremo a che fare con una spiritualità vincente o con una spiritualità perdente. Dall’inizio alla fine della nostra vita noi viviamo nella nostra carne e nella carne e per mezzo della carne cerchiamo, chi più chi meno chi affatto, di liberarci dalle debolezze, dai difetti, dalle tentazioni peccaminose cui la carne è e sarà, nonostante ogni sforzo, sempre esposta o soggetta. Dio si incontra solo nel crogiolo della carne, nella tempesta dei sensi, nella lotta contro qualunque forma di concupiscenza possa frapporsi stabilmente e rovinosamente tra il nostro bisogno soggettivo di Dio e l’oggettiva e santificante grazia divina.

Il battesimo ci libera dal peccato originale ma la nostra condizione umana resta ugualmente fragile, per cui tutta la nostra vita terrena è una lotta non contro la carne che il Cristo è venuto a salvare ma contro il peccato che, sebbene efficacemente contrastato e vinto dalla grazia divina, tende sempre ad insorgere e ad agire nella carne stessa puntando a trasformarla non in un tempio dello Spirito Santo, non in una santa dimora dove Dio abita e dove ha luogo l’incessante opera dello Spirito Santo che spinge tutte le nostre energie, ivi comprese quelle sessuali, al bene nel segno della verità, ma in una immonda e nauseabonda discarica in cui vengano accumulandosi solo i turpi prodotti della nostra condotta deliberatamente e reiteratamente licenziosa e peccaminosa.

San Paolo, è vero, parla di desideri dello Spirito contrari ai desideri della carne: ma appunto nel senso che i primi consistano in un bisogno interiore di graduale e costante soddisfacimento delle necessità spirituali della nostra carne e non nella insana oltre che illusoria o ipocrita pretesa di poter condurre una irreprensibile vita spirituale comprimendo e neutralizzando una volta per tutte e a proprio piacimento istinti, passioni, desideri. San Paolo intende dire che, se i desideri della carne sono quelli che vorrebbero privilegiare il “piacere dei sensi”, e soddisfare o assecondare qualunque moto istintuale, qualunque desiderio di potere, di ricchezza o di gloria, i desideri dello Spirito evidentemente sono quelli che, senza negare astrattamente la concretezza di tali quotidiane sollecitazioni, portano, a seconda di specifiche situazioni di vita, a farne volontariamente a meno oppure a farne un uso limitato e appropriato non sotto l’influsso di una specie di furia repressiva, che comporti peraltro gravi disturbi della personalità, ma grazie ad un impegno severo e consapevole ad un tempo che risulti coerentemente finalizzato all’amore più integro o più santo possibile per il Signore e per il prossimo.

Beninteso, però, questo processo di trasfigurazione spirituale della nostra vita di esseri carnali non è né semplice né lineare ma molto complesso e faticoso e chiunque tenda non velleitariamente alla santità non può esserne dispensato quali che siano il suo ruolo e la sua funzione nel mondo. Persino gli uomini migliori, le donne più virtuose, non hanno alcuna garanzia che l’esito di tale processo sia positivo e realmente salvifico; persino veri e non improvvisati maestri di sapienza e di spiritualità o autentici apostoli della fede e della carità possono incontrare seri ostacoli e ostacoli non già esterni ma interiori nel cammino verso la propria santificazione.

Un caso come quello di san Paolo è al riguardo assai eloquente ed eclatante. Nessuno sarebbe portato a sospettarlo per uno dei testimoni più significativi di Cristo, per il teologo per antonomasia della carità cristiana, per un uomo che parlava di se stesso e della sua conversione in questi termini: «In seguito ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io, infatti, sono l’ultimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me» (1Cor 15, 8-10). Tuttavia, l’apostolo delle genti confessa anche che, «affinché io non monti in superbia», per «la straordinaria grandezza delle rivelazioni…, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi…A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”» (2Cor 12, 7-10).

Questo è uno dei punti più controversi dell’esegesi paolina: cos’è questa dolorosa “spina nella carne”, perché un angelo cattivo lo percuote, perché Paolo, pur concretamente visitato da Cristo diverse volte, lo prega di liberarlo da quella spina e dal quel demonio, perché la risposta del Signore è incoraggiante e negativa ad un tempo? Benché molto si sia detto e scritto su ciò, benché in ambito cattolico ancora si ritenga di non poter stabilire esattamente la vera natura e il preciso significato della lamentela di Paolo, e benché l’interpretazione di natura sessuale fornita da sant’Agostino sembri oggi ai più infondata o non più legittima di altre interpretazioni, proprio Agostino, a mio avviso, fornisce la lettura esegeticamente più vicina al terribile cruccio di Paolo.

Tra le interpretazioni più quotate c’è quella per cui dal contesto del discorso paolino si evincerebbe che la spina sarebbe costituita fondamentalmente dalle difficoltà che Paolo avrebbe trovato nel suo apostolato. Difficoltà esterne: persecuzioni, fraintendimenti, calunnie, e difficoltà interne, personali, di natura fisica: probabilmente una malattia o una debolezza di tipo fisico. A Paolo, che era stato inviato da Gesù a predicare il Vangelo dappertutto, i conti non sarebbero più tornati nel constatare che i suoi programmi apostolici venivano seriamente ostacolati dalle sue infermità fisiche, per cui avrebbe reiteratamente scongiurato il Signore di togliergli quella spina, di spianargli la strada, di consentirgli di annunciare il vangelo senza eccessivi ostacoli. Ma questa interpretazione risulta attendibile sino ad un certo punto.

Infatti è inverosimile che Paolo, che, in base alla sua enorme, avventurosa e rischiosa esperienza di vita (si pensi non solo alla sua quasi quotidiana attività di predicatore ma anche ai suoi frequenti spostamenti, ai viaggi difficoltosi che dovette spesso affrontare, alle veglie e ai digiuni forzati cui dovette sottoporsi, alle esperienze umane traumatiche patite come flagellazioni e lapidazioni subíte dagli ebrei e fustigazioni corporali inflittegli dai romani, e infine ai periodi prolungati di prigionía che gli vennero imposti o ai drammatici naufragi da cui si salvò talvolta miracolosamente), doveva essere un uomo in buona o almeno discreta salute e dotato di una forte struttura psico-fisica che gli consentiva poi di essere sempre carico anche di energie mentali, affettive e spirituali, quali emergono indiscutibilmente dalle sue lettere, si lamentasse con il Signore per alcuni particolari disagi che il suo stesso apostolato comportava, o per qualche sia pur accentuato disturbo fisico e psicologico, o addirittura per forme talvolta anche gravi di incomprensione e ostilità che gli capitava di sperimentare presso alcune delle comunità cui si rivolgeva in qualità di evangelizzatore.

E’ inverosimile cioè che Paolo si lamentasse apertamente, quasi platealmente, del fatto che Gesù gli avesse concesso di essere suo testimone in un contesto di stenti, di privazioni, di sofferenze e umiliazioni, di contrarietà di ogni genere, che egli sapeva benissimo essere il miglior contesto possibile per poter meritare alla fine l’abbraccio di Dio e l’agognata corona dell’immortalità. Non è che Paolo non pregasse il Signore di facilitargli il più possibile il suo compito, la sua missione: questa è una preghiera umanissima e del tutto normale che ogni essere umano è portato lecitamente a rivolgere al Signore. Ma sapeva anche che la fatica, la sofferenza di qualunque genere, le umiliazioni, erano parte integrante del viaggio spirituale verso Dio e verso la salvezza eterna, per cui non è pensabile che egli recriminasse contro qualunque pena e sacrificio fosse chiamato a sopportare per amore di Dio.

Non è pensabile. Dunque, la spina nella carne, le beffarde percosse demoniache, l’insistente e angosciata richiesta di poterne essere liberato, di cui scrive, dovevano avere per oggetto non una qualche infermità, non una particolare privazione, non uno stato di debilitazione fisica o di generica sofferenza e frustrazione, ma qualcosa di molto particolare, di molto specifico, probabilmente anche di non completamente confessabile (e, infatti, Paolo allude a qualcosa di grave che lo affligge ma non lo descrive precisamente), che doveva metterlo in crisi moralmente e spiritualmente come uomo, come eletto e apostolo di Dio, come testimone e predicatore della santa parola di Dio. Da cosa poteva essere cosí colpito, cosí afflitto, cosí tormentato, un uomo cosí sincero, cosí onesto e generoso, cosí incurante di ogni umano pericolo e cosí fiduciosamente dedito e fedele alle cose e alla volontà divine?

E’ pressoché certo che doveva trattarsi di qualcosa che incrinava ai suoi occhi la sua stessa dignità di uomo e di ministro di Dio, facendolo sentire non retoricamente ma realmente un uomo indegno della grazia ricevuta da Dio. Qual era questa “spina” conficcata nella sua carne molto più di qualunque altro tormento esistenziale? Qual era il vero problema umano e spirituale di Paolo? Qual era “il tumore” da cui chiedeva di essere liberato? Sant’Agostino offre una risposta attendibile: il “tumore” di Paolo era una cronica fragilità psico-fisico-sessuale che lo spingeva a peccare, era una tentazione sessuale ricorrente da cui si sentiva devastare i sensi, era un peccato persistente che, nonostante i suoi notevoli sforzi e le sue struggenti suppliche a Dio, non riusciva a superare completamente e da cui veniva gettato spesso in un indesiderato stato depressivo che finiva per alimentare in lui un acuto senso di colpa.

In fondo, quando l’apostolo scriveva che “non faccio quel che vorrei”, cioè non faccio il bene che colgo con la mente e giudico degno di essere desiderato e perseguito, “ma faccio il male che detesto” (Rm 7, 18), vale a dire faccio il male costituito dai miei desideri perversi che anziché contrastare risolutamente finisco per assecondare con la mia volontà evidentemente debole o inferma, egli parlava soprattutto di se stesso, nota giustamente Agostino. La criticità di san Paolo era di natura sessuale e aveva per oggetto la sua concupiscenza che probabilmente non riusciva a tenere perfettamente a freno e che non poteva non angosciarlo, dal momento che, pur essendo stato capace di opporsi e resistere fieramente a qualunque avversità e di fare rinunce molto costose per amore di Cristo, rimaneva tuttavia troppo spesso in balía dei suoi istinti, delle sue pulsioni sessuali. Il suo sincero desiderio di bene veniva cosí in parte vanificato dalla sua incapacità pratica di attuarlo.

Quella “spina nella carne” era pertanto una concupiscenza mal governata o imperfettamente governata, ed essa era fonte di profonda umiliazione per Paolo che avrebbe voluto sentirsi soggettivamente più degno dell’amicizia di Cristo e della missione apostolica da questi affidatagli. Ecco perché, egli racconta, “ho chiesto a Cristo di esaudire la mia supplica, di liberarmi da questo odiosissimo male”, ma mi sono sentito rispondere che “la sua grazia doveva bastarmi perché è nella umana debolezza che si manifesta veramente e pienamente la sua potenza”, con relativo implicito invito a considerare la persistenza, sia pure sinceramente odiata e in qualche modo avversata, di quell’ostinata forma di peccato, a fronte della sua comprovata grandezza morale e spirituale, come la migliore terapia per conservarsi perfettamente umile e riconoscente verso il Signore.

Inutile sarebbe interrogarsi sulla specifica natura della relativa incontinenza sessuale di Paolo: sia che si tratti di una incontinenza eterosessuale o (come qualcuno maliziosamente sostiene) di natura omosessuale, sia che si tratti di una spinta all’adulterio o di generiche fantasie sessuali confinate nell’ambito della propria intimità, il vero problema è che si trattava di un peccato talmente odioso, umiliante e inconfessabile da costringere Paolo a limitarne l’esatta e compiuta descrizione.

Succede spesso ai santi: di essere tetragoni e virtuosissimi su tutti i piani dell’esistenza tranne che su quello della sessualità su cui essi sono costretti ad impegnarsi, a soffrire e a lottare molto di più. Essere un vero campione di verità e di carità, sia pure esclusivamente per grazia divina, e scoprirsi poi miserabilmente impigliato nelle fitte e sottili reti della concupiscenza, per Paolo doveva essere motivo di amarezza e di sconforto, sebbene poi la sua fede gli consentisse di cogliere la ratio di quel suo dramma nella volontà stessa di Dio volta a renderlo spiritualmente umile nonostante la sua umana grandezza e a farne un semplice e piccolo esecutore della sua potenza.

“Ti basti la mia grazia”, si sente dire Paolo da Gesù. Come dire: ti ho scelto come mio amico, come mio apostolo, come testimone e annunciatore della mia Parola di salvezza presso tutte le genti; adesso vorresti pure sentirti già perfetto, già perfettamente santo, già compiutamente beato? Se fossi tentato di inorgoglirti per tutto quello che stai facendo di buono, se non fossi capace di mantenerti umile nonostante le grandi cose che stai facendo nel mio nome, tutta la tua opera, che non tu stai compiendo ma io attraverso di te, sarebbe totalmente vana, perché non la tua potenza deve affermarsi nel mondo ma la mia potenza nella debole e lacunosa realtà umana della tua esistenza. La debolezza da cui vorresti essere liberato è bene che resti: essa è la medicina che ti occorre perché ti costringe a non adagiarti sugli allori di una già raggiunta perfezione, ma a lottare contro il peccato che ancora agisce anche in te! Pertanto, tu che sei un uomo giusto, onesto, laborioso, caritatevole e dotato di una fede granitica, sforzati di accettare il male che ti debilita psicologicamente, ti deprime umanamente, ti umilia spiritualmente, sforzati di accettarlo come occasione efficace di catarsi interiore, di purificazione morale, di combattivo esercizio spirituale volto al conseguimento della vita eterna.

E, infatti, come scrive Agostino nel “Discorso 154”, è «proprio l’Apostolo che confessa di non essere giunto a tanta perfezione di giustizia quanta noi crediamo presente negli angeli…Tuttora combatto, non ho vinto ancora; è gran cosa per me non essere vinto…L'Apostolo parla della sua personale imperfezione. Ogni santo in questa vita è carnale e spirituale ad un tempo…L'uomo spirituale potrebbe essere tentato, anche se non nella mente, certamente nella carne. E' infatti spirituale perché vive secondo lo spirito, ma anche carnale quanto alla natura mortale; è spirituale e carnale ad un tempo». E’ una lotta continua che finirà solo quando «la morte sarà assorbita nella vittoria. Allora ci sarà il grido di chi trionfa, non ci sarà il sudore del combattente».

Per molte persone comuni, che non hanno la tempra e le qualità spirituali di san Paolo, la dinamica è la stessa: non vogliono commettere adulterio ma poi commettono adulterio, non vogliono essere avari ma sono avari, vogliono essere compassionevoli e sono crudeli oppure religiosi e sono empi, vogliono essere casti ma sono portati all’impudicizia o a desiderare cose perverse. Naturalmente, molte persone comuni, rispetto a Paolo, non sono altrettanto capaci di annunciare e illustrare la Parola di Dio, di servire e obbedire a Dio, di promuovere la giustizia e la carità tra gli uomini, di utilizzare la fede in Cristo come permanente stimolo alla lotta contro il peccato e contro il male oggettivo e soggettivo ad un tempo che è nel mondo e in ognuno di noi. Bisogna avere l’umiltà di riconoscerlo, proprio come Paolo dovette avere l’umiltà di riconoscersi santo e peccatore insieme, santo non ancora completamente vincitore sul peccato quantunque sostenuto dalla grazia di Dio.

Pur essendo vicinissimo a Dio, Paolo si sentí sempre non retoricamente ma realmente e sensibilmente, a causa della sua parziale vulnerabilità sessuale, indegno dell’amore di Dio ma, proprio per questo, sempre ardentemente impegnato nella conquista dell’amore stesso di Dio. Paolo fu un esempio vivente di cosa debba essere la vita cristiana: non una tranquilla e definitiva appropriazione della divinità, ma una inquieta e sempre nuova ricerca della sua presenza nella nostra esistenza. Indipendentemente dalla specificità del contesto in cui ognuno di noi venga facendo esperienza di Dio, san Paolo oggi è lí a dire ad ogni cristiano che, quanto più si riceve da Dio, tanto più occorre essere intransigenti verso se stessi, verso i propri limiti e i propri peccati, quale che sia la loro natura, contro cui si è tenuti a combattere, sempre fidando nella misericordia divina, sino alla fine della propria giornata terrena. Ma Paolo è lí anche a dimostrare che, per quanto possa essere grande e sincera la nostra fede in Cristo, non bisogna mai illudersi sulla solidità della nostra tenuta spirituale, né minimizzare o nascondere in qualche modo alla nostra coscienza la gravità di certe nostre specifiche debolezze come sono ad esempio quelle di natura sessuale, perché solo riconoscendole e dolendocene apertamente possiamo realmente favorire il nostro cammino spirituale verso Dio e verso il premio celeste che egli prepara per ognuno di noi.

Paolo avrebbe potuto minimizzare il suo senso di colpa a colpi di razionalizzazione dicendo: è vero, ho questo fastidiosissimo problema, avverto questa inclinazione alla concupiscenza, mi sento spesso o talvolta tentato dai sensi, sono soggetto a questo peccato odioso; però, essendo io l’apostolo prescelto dal Signore e annunciando a tutto il mondo il suo messaggio di salvezza con tutto l’amore e con tutte le forze di cui sono capace, sono certo che il Signore mi perdonerà per cui forse non è il caso che io drammatizzi troppo, né che io mi senta un miserabile al pari di tanti peccatori patentati o recidivi. Non è questo il ragionamento di Paolo e, contrariamente a quel che spesso accade, non dovrebbe mai essere questo il ragionamento di tanti di noi cristiani.

Paolo non fa un confronto tra lui che è un santo di Dio e i comuni peccatori, non attenua la gravità del peccato cui si ritrova periodicamente ad essere assoggettato, e anzi si sente malato, colpito da un vero e proprio “tumore” dell’anima, e implora il Signore di esserne liberato perché è uno di quei tumori di cui un uomo onesto non può non vergognarsi e da cui un uomo di Dio non può non sentirsi travolgere. Paolo implora il Signore: liberami, perché non posso vivere in questa doppiezza di saper discernere il vero e il bene ma di non sapere mettere sempre in pratica l’uno e l’altro; liberami, perché cosí mi sento un miserabile, uno straccio, un individuo senza dignità. Sono cristianamente comprensibili e doverosi questa sua insistente preghiera, questo suo lucido e non isterico accusarsi davanti a Dio della sua colpa e questa reiterata richiesta di esserne finalmente sciolto.

Ma altrettanta significativa, per la nostra fede, è la risposta del Signore: io ti ho scelto per amore nella tua debolezza, non per eventuali tuoi meriti; io ti ho scelto gratuitamente non perché costretto dalla tua intelligenza e dalla tua sensibilità spirituale ma perché impiegassi utilmente il tuo zelo religioso; ho voluto trasformarti il cuore e ti ho chiamato per regalarti la possibilità di collaborare fattivamente al mio progetto salvifico ma non anche per privarti della fatica necessaria per purificarti umanamente e progredire spiritualmente; hai ricevuto da me un privilegio ma questo privilegio non ti esime dal confessare i tuoi limiti e dal riconoscere che la potenza divina è tale proprio perché si manifesta anche in uomini deboli e difettosi come te! Solo cosí ti sarà realmente possibile evitare che quello stesso privilegio possa darti alla testa sino a farti sentire una specie di divinità e si trasformi quindi in causa di superbia!

Paolo capisce la lezione di Dio e dice: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie  infermità ... quando sono debole, è allora che sono forte»  (2 Cor 12, 9-10). Ma non è esatto scrivere, come qualche teologo fa, che egli sia qui «orgoglioso della sua debolezza»: come si può essere orgogliosi della propria debolezza, dei propri peccati, delle proprie contraddizioni interiori? Sant’Ireneo, commentando proprio la seconda Lettera ai Corinzi, distingue la debolezza dalla grazia, osservando che la debolezza realmente e non genericamente riconosciuta rende evidente la grazia, che la debolezza umilmente accettata e abbracciata come una croce di passione, rende più evidente l’essere abbracciati da Dio, dove però quello di cui ci si può e ci si deve rallegrare è per l’appunto l’essere abbracciati, non certo la debolezza: ecco perché e in che senso nella debolezza umana si manifesta la potenza di Dio!

Quando un bambino è ammalato i genitori sono portati a stargli più vicino ma non è la malattia del bambino a costituire un valore. Insomma, la debolezza, il peccato, il senso e la confessione della colpa non sono un bene se non in quanto concorrano a rendere evidente la gratuità assoluta dell’amore di Dio per noi. Per i nostri peccati noi, come Paolo per quel suo vergognoso peccato, meriteremmo di essere puniti, ma se, nonostante i nostri peccati, il Signore può e vuole concederci la sua grazia nella molteplicità delle sue forme, la coscienza e non la rimozione delle nostre debolezze ci è utile e anzi necessaria per acquisire, per noi stessi e per gli altri, una giusta consapevolezza della straripante misericordia e della potenza inaudita di Dio. Forse, paradossalmente, senza la percezione di quella vergognosa “spina nella carne”, dobbiamo temere che alla nostra vita spirituale e alla nostra stessa fede manchi qualcosa di essenziale.