La Chiesa e la guerra

Scritto da Francesco di Maria.

 

La pace in senso biblico è un dono divino che va ben al di là dell’assenza di guerra e si configura come un effetto della giustizia tra gli uomini. Lo dice chiaramente Isaia 32, 17: “Effetto della giustizia sarà la pace”. La pace degli uomini è precaria e non duratura, è più una tregua tra due guerre che una pace sicura e stabile, la pace di Dio è una pace tendenzialmente perfetta e perenne, perché non muove dagli egoismi umani e da un istinto alla sopraffazione dell’altro ma da un sincero spirito di comprensione e di carità finalizzato al perseguimento di un bene comune che sia conforme a princípi di verità e di giustizia.

Giustizia e diritto sono alla base del trono di Dio e stanno a denotare non norme puramente formali e ipocrite di convivenza ma un modo realmente imparziale e generoso di impostare e alimentare i rapporti tra gli uomini. Giustizia e diritto confluiscono in tal senso nel grande valore cristiano della “carità”, che è l’amore altruistico e incondizionato anche se non ingenuo o sconsiderato.

Alla costruzione della pace sono chiamati senza eccezioni e in ogni ambito della vita tutti i discepoli di Gesù che tanto più saranno “beati” (Mt 5, 9) quanto più rettamente saranno capaci di costruire nel mondo relazioni di pace, ovvero improntate a verità e a giustizia amorevole e solidale. Ora, tuttavia, bisogna osservare che, per quanto i seguaci di Gesù siano tenuti ad impegnarsi contro ogni forma di violenza e di sopraffazione, gli scritti neotestamentari non offrono né una giustificazione morale della guerra né una sua esplicita condanna, soprattutto perché le situazioni in cui può divampare un conflitto o una guerra possono essere molteplici e differenti, per cui Gesù stesso sottintende o lascia intendere che non sia evangelicamente possibile una generalizzazione di giudizio e di comportamento a meno di non voler ancora una volta sacrificare aprioristicamente, in un deteriore senso ebraico e non cristiano, la libertà dello spirito e del cuore alla rigidità di una legge religiosa.

Ecco perché la Chiesa, nel corso della sua storia, ha dovuto confrontarsi continuamente con il problema della guerra e della pace e la sua dottrina al riguardo è stata oggetto di una significativa evoluzione che non sembra ancor oggi aver raggiunto il suo culmine. E’ impossibile in questa sede passare sia pure sommariamente in rassegna le diverse teorizzazioni che in due millenni la Chiesa è venuta formulando, ma basta qui ricordare che la Chiesa non ha sempre condannato in toto la guerra, parlando anche di “guerra giusta”, come attestano, tra il periodo costantiniano e l’inizio dell’età moderna, numerosi e insigni padri della Chiesa stessa. E’ forse utile notare che sant’Agostino e il papa san Gregorio Magno non formularono solo l’idea di “guerra giusta” ma anche quella di “guerra santa”.

E’ solo nel XX secolo, nell’epoca dei due conflitti mondiali, nell’era atomica e della proliferazione degli armamenti su vasta scala, che la Chiesa prende sempre più decisamente posizione contro ogni tipo di guerra, considerandola sempre e soltanto come mezzo di distruzione e di morte e come male moralmente non giustificabile in alcun caso. Il documento pontificio del ’900 che meglio sintetizza ed esprime questo nuovo orientamento della Chiesa cattolica è l’enciclica Pacem in terris (11 aprile 1963) di Giovanni XXIII, in cui non compare la tradizionale dottrina della “guerra giusta” (il che non implica tuttavia un rinnegamento della stessa), con la definizione delle circostanze che potrebbero legittimare moralmente la partecipazione ad un conflitto, mentre vengono molto accentuati i diritti che spettano ad ogni essere umano in quanto tale e vengono apprezzati alcuni fenomeni tipici del mondo contemporaneo come il miglioramento delle condizioni dei lavoratori, l’emancipazione della donna anche al di là di taluni “eccessi femministi”, una più chiara e diffusa consapevolezza dell’uguaglianza tra gli uomini (che erano tutti, come allora si disse, “segni dei tempi”), la ricerca di atteggiamenti mentali e misure pratiche favorevoli alla costruzione di una pace giusta e duratura tra cui una politica di disarmo multilaterale e rapporti politici e diplomatici improntati a fiducia reciproca e ad uno spirito di amicizia e solidarietà.

E’ pur vero, però, che nella “Gaudium et spes” (7 dicembre 1965), l’importante documento varato dal Concilio Vaticano II sotto la guida di Paolo VI, successore di papa Giovanni, riappare il discorso sulla legittimità dell’intervento armato a determinate condizioni, discorso tuttavia in linea, come già detto, con l’insegnamento tradizionale della Chiesa. Molto istruttivo ed attuale, alla luce dei tragici avvenimenti che stiamo vivendo in questo primo scorcio del secolo XXI, appare questo passaggio del documento citato: «Fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa. I capi di stato e coloro che condividono la responsabilità della cosa pubblica hanno dunque il dovere di tutelare la salvezza dei popoli che sono stati loro affidati, trattando con grave senso di responsabilità cose di cosí grande importanza. Ma una cosa è servirsi delle armi per difendere i giusti diritti dei popoli, ed altra cosa voler imporre il proprio dominio su altre nazioni. La potenza delle armi non rende legittimo ogni suo uso militare o politico. Né per il fatto che una guerra è ormai disgraziatamente scoppiata, diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto».

Alla luce di un concetto cosí articolato e preciso, la Chiesa dunque è chiamata a non assumere posizioni scontate né di tipo “neutralista” né di tipo “interventista” ma a valutare specifiche e concrete situazioni con grande capacità di discernimento, per indicare volta a volta le migliori soluzioni, i comportamenti e i provvedimenti più conformi o più vicini allo spirito evangelico. Ci si può chiedere, per esempio, richiamandosi in particolare alla parte conclusiva del passo citato, se sia giusto il silenzio odierno della più alta gerarchia ecclesiastica sui ripetuti massacri del popolo palestinese compiuti periodicamente dal beluino Stato d’Israele, dal momento che, come si legge ancora nello stesso documento, «ogni atto di guerra che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità, e va condannato con fermezza e senza esitazione».

In queste poche righe non si può e non si vuole rendere esaustivo il discorso sulla dottrina della Chiesa in materia di pace e guerra, ma si intende solo mostrare come tale dottrina si presenti storicamente molto più complessa e articolata di quanto generalmente si pensi. Da una parte, nessuna istituzione storica più della Chiesa si è impegnata contro ogni forma di violenza e di guerra, dall’altra però la Chiesa, nel farsi ambasciatrice di pace nel mondo e implacabile avversaria di ogni guerra scaturiente da puro spirito di potere e di conquista, di oppressione e di dominio, o comunque da motivi manifestamente arbitrari e irrazionali, non ha mai peccato di irrealismo, di conformismo o di bigottismo.

Il Vangelo di Cristo non è semplicemente un’etica delle buone intenzioni e dei buoni sentimenti, ma anche e soprattutto, nel quadro di un sincero rapporto di comunione con Dio, un’etica non retorica e non generica della giustizia e del bene comune e quindi un’etica volta a disincentivare non su un piano teorico ma nel cuore stesso degli uomini desideri nascosti di potere e di possesso, di ricchezza e di dominio, a tutto vantaggio dell’attitudine spirituale a denunciare limpidamente sopruso ed oppressione e a servire il prossimo non in modo distaccato o meramente consolatorio ma facendosi realmente e coerentemente carico dei suoi bisogni reali, delle sue sofferenze oggettive e delle sue angosce più lancinanti. Ed è per questo che uno dei compiti principali della Chiesa di Cristo è quello di contrastare storicamente ogni possibilità o ogni tentativo di strumentalizzazione di Dio, del vangelo e della stessa fede in Cristo.

In questo senso i grandi padri della Chiesa latina, in un contesto storico pieno di pericoli per la fede e la vita stessa dei cristiani quale quello dei primi cinque o sei secoli dell’era cristiana, non si fecero scrupolo nell’elaborare una teologia della guerra che sarebbe servita da fondamento spirituale e morale per i successivi millecinquecento anni di storia dell’occidente cristiano (D. Tessore, La mistica della guerra. Spiritualità delle armi nel cristianesimo e nell’islam, Roma, Fazi Editore, 2003). Una “teologia della guerra” che talvolta sarebbe stata usata strumentalmente per giustificare degli “eccessi” e veri e propri crimini empiamente compiuti nel nome di Cristo, ma che molto più spesso avrebbe consentito alla Chiesa di ergersi, con profondo e fecondo spirito di discernimento e con santo ed intrepido realismo, quale più avanzato e lungimirante avamposto storico di difesa delle ragioni della pace contro forme molteplici di iniquità, di violenza e di guerra, continuamente insorgenti nel drammatico cammino dell’umanità verso la pace gloriosa, totale ed eterna di Dio.