L'invidia oggi: indagine sulla problematicità di un peccato mortale

Scritto da Francesco di Maria.

 

Il più invidioso o la più invidiosa di tutti è chi vuole primeggiare o dominare rispetto a coloro che sono molto più dotati di lui in senso intellettuale e morale, indipendentemente dalla posizione sociale e dal ruolo professionale occupati. Si può essere invidiosi sotto l’aspetto fisico-estetico o sotto l’aspetto affettivo e sentimentale oppure per motivi economici e sociali ma, almeno nel nostro tempo, la forma più diffusa di invidia è quella che ha a che fare appunto con la valutazione delle capacità intellettuali e morali delle persone.

Quel che suscita particolare risentimento nell’uomo e nella donna comuni generalmente non è il possesso altrui di speciali qualità fisiche ed estetiche, di beni materiali, di prestigiose qualifiche professionali o di rilevanti ruoli istituzionali, se tutto questo venga ritenuto normale conseguenza di capacità reali o di effettivi meriti, bensí la supposta discrepanza, rilevata in chi sia oggetto di critica più o meno astiosa, tra le sue presunte qualità intellettuali e morali e il suo esibito ma spesso scorretto modo di pensare e di agire, tra le sue ipotetiche competenze e le sue opere concrete che spesso risultano irrilevanti, e soprattutto tra ciò che riesce a produrre sul piano professionale e culturale o etico-religioso e i riconoscimenti sociali riscossi e spesso per l'appunto ottenuti sulla base di competenze e meriti molto dubbi o discutibili.

Naturalmente, chi critica in questo senso si pone obiettivamente su un terreno scivoloso, su cui la critica può risultare attenta, fondata, puntuale e persino utile o doverosa, ma può risultare anche viziata da preconcetti e pregiudizi di varia natura (talvolta anche di natura umorale) o da semplice prevenzione psicologica e/o relazionale che ne minino l’attendibilità e l’efficacia. Ora, sarebbe importante capire che nel primo caso la critica non è mossa necessariamente dall’invidia o dalla gelosia, spesso tra loro imparentate, mentre nel secondo caso è molto più probabile che essa abbia a che fare con reali e virulenti moti personali di invidia.

Allo stesso modo, contrariamente a quel che di solito si pensa, non è detto che a rodersi dall’invidia sia solo il soggetto che non abbia avuto potere, successo o consenso nei vari campi della vita o che non si sia affermato e realizzato sul piano umano, sentimentale o morale, perché al contrario, proprio tra coloro che riscuotono riconoscimenti per cosí dire importanti da un punto di vista sociale, professionale, politico o accademico, non pochi individui sono affetti da invidia cronica o congenita: sono quelli che hanno fatto di tutto, con mezzi leciti ed illeciti, con o senza meriti, in modi a volte dignitosi ma molto più spesso indecorosi, per ottenere onori e riconoscimenti di ogni genere al fine di poter dimostrare a se stessi oltre che agli altri non solo di essere persone di grande valore ma anche di essere superiori ai loro simili e a simili in realtà più dotati e meritevoli su cui non di rado esprimono giudizi sussiegosi o sprezzanti, specialmente ove non ottengano quel rispetto riverenziale e quella stima che non meritano ma che pretendono sempre e comunque.

Tra questi ultimi, in verità, cospicuo è il numero delle teste di segatura, degli asini patentati, dei mediocri blasonati e non blasonati, dei parvenus di molto dubbio valore intellettuale o di ancora più incerta integrità morale, dei raccomandati deficienti di natura e servili di indole, delle anime belle di professione o per vocazione, che si nutrono di un amore puramente apparente per il sapere e di una dedizione tanto ostentata quanto ipocrita per gli universali valori della civiltà umana:  da questa gente, in mezzo a cui invidia e gelosia sono molto più di casa che in qualunque altra aggregazione umana,  alla società e al genere umano vengono più danni che vantaggi, più occasioni di regresso culturale ed etico-civile che di vera emancipazione intellettuale e morale. Laddove, peraltro, tra coloro che mettono in mille modi in evidenza questa triste realtà e questa penosa verità, non tutti sono necessariamente animati da puro spirito critico-distruttivo, da polemica fine a se stessa, da giudizi malevoli e astiosamente invidiosi.

Purtroppo, qui si ha spesso a che fare con molti luoghi comuni, secondo i quali non sarebbe invidioso chi avrebbe avuto modo di soddisfare le proprie aspirazioni o ambizioni, mentre sarebbe portato ad invidiare chi invece nel corso della vita avrebbe accumulato solo insuccessi e frustrazioni. Non è che questo sia falso in assoluto; può darsi sia vero ma, questo è il punto da non trascurare, non necessariamente. Altrimenti, dovremmo ritenere che invidioso sia il vero profeta in quanto mette a nudo le falsità e le meschinità degli esseri umani, l’intellettuale o il critico della società in quanto cerchino di demistificare modelli comportamentali e stili di vita comunemente accettati condivisi e addirittura ammirati, l’educatore che diffida delle verità apparenti e si accosta problematicamente alla varia e complessa realtà della mente e della personalità umane.

E’ certamente vero che, come ha scritto Gianfranco Ravasi (Le porte del peccato, Mondadori, 2009), l’invidia, malattia dell’anima, è «sposa della superbia, ha per sorella la gelosia e per figlia l’infelicità», ma il problema non è di descriverla più o meno correttamente in termini generali, ma di stabilire se chiunque prenda a disarcionare criticamente determinati personaggi dal loro piedistallo di successo o di notorietà, di presunta autorevolezza professionale o scientifica e culturale, sia sempre e comunque mosso da un sentimento di invidia, o non possa sforzarsi piuttosto di svolgere un’onesta e meritoria opera di verità intellettuale e morale, di offrire un lucido e disinteressato contributo etico, religioso e politico al tema sempre dibattutissimo della giustizia in senso etico e della giustizia sociale.

Ecco, se l’invidia, come ritiene Salvatore Natoli, può essere definita come una predisposizione d’animo che porta a desiderare il successo, il potere o la ricchezza altrui, negandone contemporaneamente la legittimità in colui o colei che li possiede, come un sentimento con cui ci si rattrista del bene altrui e si gode invece del male altrui, non è detto che essa debba necessariamente o esclusivamente appartenere a chiunque, in spirito di verità e sulla base di argomentazioni fondate e oggettive, si provi a demolire rigorosamente ed efficacemente talune situazioni personali o collettive di menzogna e di falsità. L’invidia può invece riguardare sempre tutti, senza distinzioni di sorta: sia chi abbia avuto tutto dalla vita, sia chi abbia avuto poco o niente, sia il politico o il cattedratico più osannato, sia il più umile dipendente dello Stato o il più straccione degli uomini.

Se non si comprende questo essenziale concetto, ci si espone al rischio di considerare frutto di invidia qualunque critica intellettuale e morale, qualunque denuncia di ordine politico e sociale, qualunque contestazione di natura profetica e religiosa. Né è ragionevole e tollerabile che ignoranza, immoralità, corruzione, inciviltà, seppur talvolta indebitamente trasformate nel loro contrario da pessime e non dichiarate consuetudini umane, passino sempre sotto silenzio e dominino incontrastate nella storia degli uomini. Sia da un punto di vista laico, sia da un punto di vista religioso, chi può ha il dovere di testimoniare anche criticando, denunciando, giudicando, pur senza pretendere mai di dire la parola ultima e definitiva sui singoli ma lasciando a Dio il giudizio assoluto e definitivo su tutti e ciascuno. Nell’esercitare correttamente la difficile e delicata arte della critica demistificante o profetica si può tuttavia incorrere, più facilmente che in un peccato di invidia, in un peccato di insufficiente spirito di carità, e questo accade tutte le volte che la critica, pur legittima e giusta, si carica di eccessiva foga personale, cioè di una partecipazione emotiva che tende a travalicare i limiti della critica pur obiettiva, esaustiva e rigorosa per assumere un carattere accusatorio e sprezzante da cui almeno un cristiano dovrebbe sempre rimaner distante.

La mancanza di spirito di carità è certo una mancanza grave. Non a caso, scrive san Paolo: «Al di sopra di tutto vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti!» (Col 3, 14-15). E, d’altra parte, il buon cristiano non può illudersi di essere sempre pronto a mostrarsi caritatevole nei confronti di chicchessia e in qualsiasi circostanza: egli, per quanto virtuoso o santo possa essere, deve scontare nel corso della sua vita limiti personali più o meno accentuati e non completamente eliminabili affidandosi alla preghiera, al pentimento, al sacramento della riconciliazione, alla sincera pratica eucaristica.

Però, un deficit di carità non è sempre e necessariamente identificabile con una manifestazione di invidia: sono cose distinte, nel senso che l’invidioso è sicuramente un soggetto privo di spirito caritatevole mentre un soggetto non caritatevole non è con altrettanta certezza una persona invidiosa. L’invidia porta a non amare né il prossimo né i doni eventualmente elargiti da Dio al prossimo che sia oggetto di critica o biasimo, se non di calunnia e diffamazione, mentre la mancanza di amorevolezza verso il prossimo non porta necessariamente ad invidiarlo anche dove fosse realmente meritevole di astio e di grave censura ma semplicemente ad essere indifferente verso di lui (il che forse non è meno grave ma è tuttavia altro rispetto al peccato specifico dell’invidia).

Queste distinzioni, queste precisazioni, a mio avviso, sono utili forse a recuperare un senso originario e profondo di precetti e divieti divini, di colpe e virtù evangeliche, che è andato un po’ troppo dilatandosi nel corso del tempo e della stessa pratica religiosa sino a diventare cosí generico e astratto da poter esser attribuito indistintamente ma erroneamente a inclinazioni o deviazioni spirituali tra loro piuttosto diverse. Inoltre, non infrequente è il caso in cui si viene facendo confusione tra l’invidia e lo sdegno, il quale ultimo, in talune specifiche situazioni, non solo non ha nulla di negativo ma può persino configurarsi come effetto di un comportamento santo e caritatevole.

Tra il bambino evangelico, che ognuno di noi è chiamato a diventare, e il bambino della favola di Andersen, la distanza non è incolmabile: in entrambi i casi si ha infatti a che fare con un bambino che dice esattamente quel che vede, che nel suo totale e ingenuo candore non si preoccupa di ripetere a pappagallo quel che tutti dicono in modo falso ed ipocrita: se il re è nudo, il bambino del vangelo non meno di quello del racconto anderseniano grida pubblicamente: “ il re è nudo!”. Come sarebbe naturale che tutti facessero.

L’invidia, riassume Ravasi,  è’ dire più o meno incosciamente: «ti odio perché tu hai ciò che io non ho e che desidero. Io voglio essere nella tua posizione, con le tue opportunità, con il tuo fascino, con la tua bellezza, con le tue capacità e la tua ricchezza spirituale. Chi prova invidia tende a mal vedere le altre persone, l’invidia non porta nessun piacere è un’afflizione dello spirito in quanto non si esaurisce mai e ci sarà sempre un’altra persona da invidiare. L’invidia è utilizzata come meccanismo di difesa per innalzare se stessi e disprezzare gli altri. Il paragone con gli altri che tanto piace all’invidioso non ha senso in quanto siamo tutti unici e originali, la curiosità ci serve per conoscere il mondo, per informarci ma non per confrontare il proprio valore, per questo le domande dell’invidioso vanno distinte dalla sana curiosità. Ciascuno è originale e ciascuno è diverso, perché devo voler essere come l’altro? Spesso, infatti, il soggetto invidioso possiede delle buone qualità che possono anche essere riconosciute, ma non le considera sufficienti e si ritiene un incapace» (op. cit.,).

Nulla da eccepire, se non per il fatto che talvolta ad occhi distratti o superficiali questi tratti potrebbero sembrare apparentemente anche quelli di chi in realtà, con tutta l’umiltà di cui sia capace e non desiderando nient’altro che tutto ciò che Dio gli ha concesso e continua a concedergli, venga energicamente e sapientemente assolvendo, per esclusiva grazia divina, una funzione di testimonianza evangelica doverosa e indispensabile per poter contribuire alla comprensione più fedele possibile della Parola e della Volontà divine a tutto beneficio della sua comunità d’appartenenza. In una società in cui è ormai pensiero comune il ritenere che l’importante sia ottenere un posto di lavoro indipendentemente dalle capacità e dai meriti necessari ad occuparlo o a conseguirlo e che la presenza di molti soggetti impreparati e inadeguati al lavoro che esercitano in posti spesso delicati dell’organizzazione statuale in fondo non possa incidere negativamente sulla qualità della cultura di massa e sulla produttività complessiva di una nazione, quanti, pur avendone la possibilità e i mezzi intellettuali e morali, non fanno nulla per contrastare certi andazzi, certo diffuso malcostume, certe frequenti pratiche corruttive, certe deteriori abitudini sociali a tutto reputare normale e a giustificare, non finiscono per rendersi complici, contro ogni elementare principio etico e religioso, di un sistema di vita iniquo e sgradito a Dio?

Il Libro della Sapienza ricorda che la «morte è entrata nel mondo per l’invidia del diavolo» (Sap 2,24). Cosa significa? Significa che una misteriosa ma reale forza malefica agisce sin dal principio nella storia e nella vita degli uomini per indurli a compiere azioni peccaminose e atti arbitrari come se fossero invece azioni e atti del tutto normali, leciti e convenienti. Ma la trasgressione, una volta compiuta senza pentimento alcuno e senza sincero desiderio di porvi riparo o di non più ricadervi, diventa un’abitudine di vita che viene reiterandosi in ogni altro pensiero e nelle successive azioni della propria esistenza, arrecando ferite gravissime alla coscienza morale del genere umano e danni incalcolabili alle stesse possibilità emancipative dell’intera civiltà. Gli uomini commettono il male o abusano del bene per realizzarsi non secondo Dio ma secondo Satana, secondo la parte più infimamente egocentrica del proprio io. In questo senso la critica razionale, la critica morale, la critica politica, la stessa critica religiosa e soprattutto evangelica, se ben esercitate, possono fungere da utile correttivo o da antidoto ai peccati che, sotto l'impulso dell'invidia diabolica e per mera e ingiustificata smania di grandezza personale, gli uomini commettono da sempre contro Dio e contro altri uomini.

Ogni trasgressione della legislazione divina è apportatrice di morte in modo irreparabile se non ci si converta sul serio a forme di vita rispettose degli stessi comandi divini. Non è che si voglia fare del facile e scontato moralismo: aiutare qualcuno disinteressatamente a trovare un posto di lavoro, a svolgere attività lavorative che gli siano gradite oltre che economicamente utili o necessarie, a raggiungere determinati traguardi professionali non costituisce certo una colpa, perché anzi può costituire un merito degno di apprezzamento o di lode, ma persino l’azione moralmente più disinteressata ed altruista (dove però nei fatti certi sostegni o raccomandazioni risultano solitamente assai poco disinteressate e altruistiche) può essere considerata legittima solo a determinate condizioni: a condizione che chi venga segnalato o raccomandato sia all’altezza dei compiti professionali ai quali verrà chiamato e che vada ad occupare un posto di lavoro o ad assumere una determinata responsabilità sociale o istituzionale senza prevaricare più o meno consapevolmente rispetto ad individui migliori o più competenti di lui.

Pertanto, la diligente, onesta e qualificata critica intellettuale e morale che può essere esercitata in tutti i campi della vita civile, lungi dal potersi o doversi classificare come frutto di invidia personale o sociale, è in se stessa considerata non solo legittima ma anche necessaria, e quella parte di Chiesa cattolica che, nel nome di una malintesa umiltà e di una non meglio precisata mansuetudine, si ostina invece a predicare che bisogna lasciar perdere quel che accade nel mondo e che bisogna concentrarsi unicamente sulle proprie azioni personali, viene assolvendo in modo molto ambiguo il suo compito di testimoniare il vangelo e la sua funzione pastorale avallando fenomeni, molto estesi anche tra i suoi fedeli, di lassismo o permissivismo, di compromissione e corruzione, di continui adattamenti della stessa fede alle deleterie logiche del mondo.

Peraltro, è tutto da dimostrare l’assunto per cui uno che abbia avuto successo nella vita sociale sarebbe certamente meno invidioso di uno che invece non l’abbia conseguito, come se quest’ultimo rispetto al primo dovesse essere per forza meno ricco di qualità intellettuali e morali, di capacità comunicative e produttive, di schietta e sicura autostima, di risorse relazionali e spirituali. Dove sta scritto?

Esiste una vastissima esperienza storica che è lí a dimostrare come l’invidia sia un veleno particolarmente presente in ambiti professionali elevati della società e che proprio in tali ambiti essa venga mascherata da ragionamenti e atteggiamenti mentali apparentemente corretti o addirittura nobili e immuni da meschini modi del comune sentire, mentre in realtà la mente e il cuore di molti di coloro che vi operano sono costantemente in balía dell’invidia più volgare e corrosiva: per non essere stati capaci di raggiungere delle mete solo o prevalentemente con le proprie forze e secondo percorsi lineari di vita, per essere stati servili e opportunisti, per essersi appropriati indebitamente di funzioni professionali e sociali che soggetti più preparati e meritevoli avrebbero avuto il diritto di esercitare e avrebbero saputo più proficuamente ed efficacemente esercitare, per essere rimasti dei plebei dello spirito pur facendo parte di determinate élites sociali e professionali ed illudendosi di essere o almeno di apparire spiriti raffinati, per essere condannati a rimanere piccoli uomini pur dandosi arie da superuomini.

Capire queste cose, testimoniarle con il pensiero e la vita, spiegarle con opere tanto concrete quanto obiettive e disinteressate, significa non perdere il contatto con i semplici e veri discepoli di Gesù, che non è contento solo del santo che abbia scelto di fare l’eremita per dedicarsi ad una vita di penitenza e di preghiera, o del mistico contemplativo isolato dal mondo attivo per amore e non per fuga o disimpegno, o anche del modesto e sincero fedele tutto casa lavoro e famiglia, ma anche dei peccatori perennemente impegnati in un inesauribile processo di conversione spirituale e in una lotta fattiva anche se apparentemente isolata e velleitaria contro ogni genere di iniquità e a favore di un benessere e di una felicità evangelici che avanzano nella storia degli uomini non in modo roboante ma con grande e lacerante fatica.

Di chi e di cosa potevano o dovevano essere invidiosi tanti profeti veterotestamentari letteralmente ricolmi dell’amore e dello spirito di Dio? Perché mai avrebbe dovuto essere invidioso Giovanni Battista, quella umile e potente voce che gridava nel deserto per preparare la via del Signore, nel criticare severamente la condotta immorale di Erode e di sua moglie? Lo stesso Gesù nel mandare a quel paese tanti dotti ed illustri ma vuoti ed ipocriti sapienti del suo tempo? Cosa può invidiare di un personaggio fortunato o famoso uno spirito che faccia fruttare silenziosamente i suoi nascosti ma indubbi talenti ponendoli senza retorica e senza ostentazione al servizio del regno di Dio prima e oltre che della comunità, pur senza riscuotere particolari riconoscimenti sociali ed istituzionali? Perché un semplice e debole uomo, pieno dell’amore e del favore divini, dovrebbe essere portato ad invidiare qualcosa o qualcuno solo perché si sforza di offrire a se stesso e ai suoi simili, con l’aiuto di Dio, un contributo intenso e appassionato di verità e di giustizia? Una persona del genere, al più, potrebbe invidiare chi sia migliore di lui sul piano intellettuale e morale, chi sia più coraggioso di lui da un punto di vista civile e spiritualmente più libero, a prescindere dai titoli, dalle onorificenze, dagli incarichi pubblici e dai riconoscimenti ufficiali di cui disponga o non disponga, ma in realtà una persona del genere, che si percepisce come enormemente limitata ed oltremodo imperfetta in senso evangelico,  è molto più portata ad ammirare chi sia migliore di lui che non ad invidiarlo, fermo restando che essa è sempre aperta a riconoscere generosamente qualità e meriti di chicchessia purché veri, reali, e non fittizi o semplicemente propagandati.

Perché uno a cui non manchi né l’intelligenza, né la sensibilità, né una buona salute, né l’amore della moglie e dei figli, né l’arte dell’eloquenza, né quella dello scrivere, né soprattutto la grazia sia pure totalmente immeritata di Dio, dovrebbe invidiare e quindi odiare qualcuno che sia probabilmente in tutto meno dotato di lui tranne che per ipotesi sul piano fisico e per i successi economici o i riconoscimenti istituzionali conseguiti, semplicemente perché ritenga di doverlo criticare con buoni argomenti di ordine logico-razionale, morale, politico o religioso?

Quando san Paolo criticava e rimproverava apertamente Pietro, lo faceva forse per invidia? Quando i primi cristiani praticavano frequentemente nelle loro comunità la parresía, ovvero il coraggio e la sincerità della testimonianza, il giudizio libero e franco nei confronti di chiunque commettesse qualcosa di sconveniente o disonorevole in rapporto alla propria fede e alla comune fede comunitaria, era forse l’invidia il vero movente del loro agire o non piuttosto un bisogno di rigorosa fedeltà al proprio credo religioso e quindi anche un bisogno di reciproco amore finalizzato a salvaguardare il benessere spirituale di ciascuno e di tutti?

Ma, anche al di fuori di un contesto religioso e cristiano, è forse necessariamente l’invidia e la malvagità che spingono, che so, un intellettuale, un uomo di Chiesa, un artista, un profeta, un qualunque soggetto capace di giudizio rigoroso ed obiettivo, a contestare qualcosa a qualcuno o a determinati gruppi di individui, o non può accadere piuttosto che le sue prese di posizione derivino da una semplice e lineare esigenza di verità e di giustizia? Non è stato Michel Foucault, per esempio, a scrivere che «perché ci sia democrazia dev’esserci parresía», in quanto « la parresía è un atto direttamente politico che viene esercitato davanti all’Assemblea, o davanti al capo, o davanti al governante, o davanti al sovrano, o davanti al tiranno ecc. È un atto politico, ma sotto un altro aspetto, la parresía [...], è anche un modo di parlare a un individuo, all’anima di un individuo: un atto che riguarda la maniera in cui quest’anima verrà formata» (Il governo di sé e degli altri, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 153). Ma, chissà, forse anche il celebre scrittore francese scriveva cosí per razionalizzare impulsi distruttivi radicati nel suo ego invidioso!

Ma il vangelo non dice che…? Il vangelo non dice niente di diverso da quello che sin qui si è venuto argomentando e sostenendo, solo che il vangelo bisogna saperlo leggere, bisogna volerlo leggere con un uso appropriato del proprio intelletto e soprattutto con la pazienza e l’onestà che le cose dello spirito sempre richiedono in sommo grado. Ma Gesù non ha forse detto che non bisogna invidiare i ricchi? Certo: infatti, per quale motivo uno che ha Dio, cioè tutto, nella sua vita, dentro se stesso, dovrebbe invidiare chi dispone di molti mezzi materiali? Ma uno che è ricco di grazia e spirito divini, sa anche che gli corre l’obbligo morale e spirituale, prima che politico, di ricordare ai ricchi che la ricchezza, dono prezioso di Dio, è da Lui destinata ad essere condivisa e distribuita equamente tra tutte le persone e i popoli della terra, e agli stolti o agli empi che farebbero bene a pentirsi delle loro malefatte e a convertirsi a nuova vita prima che sia troppo tardi.

L’invidia è un nemico sempre in agguato in ognuno di noi. Non si può negare, ma è più facile che essa alligni nei mediocri piuttosto che in spiriti liberi o nobili, in spiriti non completamente affrancati da miserie e vizi, da debolezze e contraddizioni, ma sinceramente coinvolti e impegnati in un duro e serio cammino di liberazione spirituale.  Sono infatti i mediocri a pensare che sia sempre una grande colpa l’avere più ingegno e più rettitudine del comune. In questo senso ha scritto molto bene ancora Ravasi: «La mediocrità alligna dappertutto, nella società civile e anche in quella ecclesiastica, nelle famiglie e nelle comunità, negli ambienti di lavoro e di studio. La caratteristica fondamentale di questo difetto è la gelosia sfrenata, l’invidia per tutto ciò che sta sopra il suo livello di basso profilo…. Ognuno di noi può elencare almeno dieci casi in cui l’invidia o la gelosia abbiano frenato una buona idea o schiacciato una persona degna di essere ascoltata. E almeno un caso in cui questo difetto si sia fatto strada dentro di noi, e ci abbia reso colpevoli dello stesso delitto contro il progresso della nostra società…Ed ecco, allora, scatenarsi non tanto il confronto chiaro e netto (il mediocre sa che alla luce della verità soccomberebbe) ma la sottile erosione della dignità dell’altro, l’uso ipocrita del giudizio, l’adozione colpevole della calunnia, il ricorso alla manovra, la coalizione con altri mediocri, la frenetica ricerca di ogni occasione per far cadere chi è superiore per intelligenza, umanità o capacità. Si potrebbe a lungo descrivere il ritratto del mediocre, nemico di ogni ingegno, di ogni grandezza, di ogni libertà di spirito. Ma ognuno deve riconoscere – a prescindere dalle doti che possiede – che un germe di questa malattia, purtroppo non riconosciuta come tale ma sovente esaltata come buon senso ed equilibrio, alligna sempre nell’anima ed esige il coraggio di strapparla senza tante storie e giustificazioni falsamente religiose e moralistiche» (in “Avvenire” del 5 ottobre 2006).

L’invidia è la sterile e improduttiva vendetta dei mediocri e quindi degli incapaci, di quelli che si piangono sempre addosso e si autocompatiscono, che imprecano sempre contro la cattiva sorte che avrebbe impedito loro di emergere, che recriminano sempre contro chi ha avuto fortuna nella vita ottenendo vantaggi o riconoscimenti assolutamente immeritati, che non fanno altro che esprimere giudizi sprezzanti e aggressivi verso chi è migliore di loro a prescindere dalle posizioni o dai ruoli assunti nella società, che non sanno costruire e valorizzare nulla sapendo solo sputare veleno anche senza proferir parola. Laddove invece chi critica innanzitutto autocriticandosi con molta severità, chi critica senza mai recriminare contro la sfortuna, chi critica non perché affetto da un complesso di inferiorità o frustrato dal successo altrui ma per via di motivazioni altamente razionali e morali che sottendono e alimentano non occasionalmente ma costitutivamente tutta la sua esistenza, chi critica con manifesta competenza ed esercitato senso morale, chi critica per gli obblighi spirituali che gli derivano dalla sua fede religiosa, chi critica non retoricamente o demagogicamente nell’interesse del bene comune, non è interessato tanto ad essere lodato o denigrato da questo o da quello per le idee che esprime o le prese di posizione che assume quanto ad esser degno di apprezzamento e di lode per l’opera in sé di verità e di giustizia che si sforza di svolgere nei confronti di atteggiamenti mentali e pratici non solo sbagliati ma obiettivamente disonesti e socialmente rovinosi.

In fondo, non sarebbe difficile riconoscere l’invidia e distinguerla da un sano e disinteressato sdegno o da un santo e costruttivo anche se doloroso richiamo. Sarebbe sufficiente riflettere sull’oggetto del pensiero o dell’atto invidioso: se ad essere presa di mira è la virtù, l’onestà, l’incorruttibilità, la vera e non ostentata santità, si può esser certi che l'autore della critica sia una persona invidiosa, ma se, al contrario, ad esser bersaglio di critica è il vizio, la menzogna, l’immoralità, l’ipocrisia, oltre che una mediocrità becera e vanitosa dalle mille possibili forme, allora è molto probabile che l’autore della critica possa avere mille difetti ma non quello dell’essere invidioso. Infatti, la forma più devastante di invidia è quella che non sopporta la superiorità dell'altro in intelligenza, in bontà, in umanità, anche se l'altro sia di rango professionale, sociale, istituzionale, per cosí dire, “inferiore”. Un simbolo per tutti è certamente la figura biblica di Saul: Saul era un grande re ma era torturato dalla sua invidia per Davide perché questi era migliore di lui ed era molto amato dal popolo.

C’è tanta gente che ha ottenuto tutto quel che voleva o anche più di quel che voleva ma che invidia rabbiosamente e segretamente, pur ostentando in modo grottesco un senso di superiorità, chi in apparenza ha conseguito risultati inferiori. Questo deve indurre ad una profonda riflessione, in conseguenza della quale chi vorrà veramente intendere, intenderà!