Dialogo interreligioso e dottrina cattolica

Scritto da Francesco di Maria.


Tutte le religioni, al di fuori di quella cristiano-cattolica, sono eresie. Il fatto che in esse vi siano o possano esservi elementi parziali e incompleti di verità o che vi siano contenuti elementi profondamente distorsivi della fede in Dio, incide ben poco sul giudizio del credente cattolico che, in presenza di una dottrina religiosa parzialmente o totalmente antitetica alla dottrina religiosa della Verità integrale ovvero alla dottrina religiosa centrata su Cristo vero Dio e vero uomo in ontologica e permanente comunione con il Padre e lo Spirito Santo, non può e non deve fare altro che obbedire al comando di Gesù: «Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno» (Mt 5, 37). In altri termini, Gesù chiede ai suoi seguaci di esercitare, nel valutare le cose del mondo e soprattutto le molteplici forme in cui vengono rappresentate la realtà e la volontà divine, un’onestà radicale e totale di giudizio e di comportamento, senza mescolare il sí e il no per non contrariare troppo aspettative sbagliate e perniciose degli uomini.

Se tu parli di Dio in modo erroneo o addirittura blasfemo, io che ho avuto il privilegio di grazia di incontrare e conoscere la Verità incarnata, la Verità fatta Persona, non posso e non devo fare altro, costi quel che costi, che testimoniare esattamente quello che da tale Verità mi è stato rivelato. In caso contrario, il mio dire e il mio fare non possono che risultare sgraditi al Signore. Punto.

Mi tornano in mente le istruttive e profetiche parole di uno dei massimi teologi contemporanei della Chiesa cattolica, mons. Brunero Gherardini che, in un suo illuminante e tagliente libro, intitolato Quale accordo fra Cristo e Beliar. Osservazioni teologiche sui problemi, gli equivoci ed i compromessi del dialogo interreligioso, Verona, Fede e Cultura, 2013, p. 48, scriveva: «La secolare saggezza della Chiesa ha sempre preso le distanze dalle religioni non cristiane per tutelare la fede dei suoi figli, sottraendoli al contatto, all’influsso e perfino al confronto con altri “credi”. Ciò non le impedí, ovviamente, d’assumere quanto di buono, d’onesto e di bello fosse in essi: una presenza che qualcuno spiegò, e tutt’oggi spiega, come effetto dei “semina verbi”, diffusi da Dio anche al di fuori della rivelazione cristiana. L’aver  sottratto i fedeli al rapporto con le altre religioni li prevenne sempre dal pericolo dell’indifferentismo religioso, secondo il quale una religione vale l’altra. E’ questo, purtroppo, il giudizio oggi largamente diffuso fra non poche frange del popolo di Dio, frastornato, esterrefatto, meravigliato ed un po’ anche scandalizzato dallo zelo di troppi teologi e operatori pastorali nel sostenere e sottolineare gli elementi di verità delle religioni non cristiane».

Purtroppo, il cosiddetto “dialogo interreligioso” nasce da un uso molto ambiguo del termine ecumenismo che inizialmente avrebbe dovuto denotare il cammino di tutti i cristiani verso l’unità nell’unica Chiesa voluta e fondata da Cristo, quella cattolica, ma che nel corso del tempo ha finito per significare tutt’altro: sia perché, in ambito protestante in cui si era coniato tale termine, si venne mettendo in discussione la legittimità della Chiesa cattolica come Chiesa “visibile” espressamente voluta da Cristo, sia perché il termine ecumenismo, originariamente adoperato per indicare il dialogo tra cattolici e cristiani separati, venne esteso successivamente e indebitamente al dialogo tra cattolicesimo e religioni non-cristiane sino a diventare sinonimo di dialogo interreligioso.

In realtà, il Concilio Vaticano II avrebbe cercato di chiarire che la Chiesa di Cristo sussiste (subsistit) solo nella Chiesa cattolica, depositaria del culto dell’unica vera religione (si veda “Catechismo cattolico”, n. 2105), mentre al di fuori della sua organizzazione visibile si danno solo “elementa Ecclesiae”, elementi parziali o frammentari dell’unica Verità che, essendo comunque elementi costitutivi della Chiesa cattolica stessa, tenderebbero e condurrebbero verso di essa. Bisogna precisare che fu lontana dalle intenzioni dei padri partecipanti al Concilio Vaticano II l’idea di una non ancora realizzata unità della Chiesa a causa dell’esistenza di persone e movimenti religiosi o presunti tali separati da essa o contrari a riconoscerne la legittimità e la centralità nel contesto della spiritualità e religiosità contemporanee, per cui la verità divina sarebbe divisa, sparsa un po’ da tutte le parti, presente un po’ nella Chiesa cattolica e un po’ fuori di essa e, per esempio, tra le altre religioni del mondo, a cominciare da quelle monoteistiche come l’ebraismo e l’islamismo.

Già Pio XI aveva chiarito nella Mortalium animos che «è una sciocchezza e una bestialità pretendere che questo Corpo mistico», quello di Cristo e dunque la Chiesa, «risulti di membra disgiunte e disperse». Ma fu soprattutto papa Giovanni XXIII, nell’aprire il Concilio Vaticano II l’11 ottobre 1962, a dichiarare significativamente che finalità principale di esso «era di custodire ed insegnare in forma più efficace il sacro deposito della dottrina cristiana; e indicò le linee di questo esercizio magisteriale. L'auspicato rinnovamento nella vita e nella missione della Chiesa deve compiersi nella fedeltà ai sacri principi, alla dottrina immutabile, seguendo le orme dell'antica tradizione: “Il concilio”, disse, “vuole trasmettere pura e integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti”», pur essendo essa da approfondire e da presentare in forme più rispondenti «alle esigenze del nostro tempo» (Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II, TPV, vol. I, pars I, 1970, vol. I, pars I, pp.170-171, in Motu proprio Superno Dei Nutu, 5-6-1960: Acta et Documenta Concilio Oecumenico Vaticano II apparando, Series I, vol. I, Typis Polyglottis Vaticanis 1960, p. 93, curati da mons. Vincenzo Carbone cui Paolo VI sin dal 1967 affidò l’Archivio Centrale del Concilio Vaticano II; lo stesso Carbone ha curato, per l’appunto, la pubblicazione degli Acta Synodalia che riportano i testi e gli interventi del Concilio).

Ma il punto definitivo veniva fatto dall’allora cardinale Joseph Ratzinger nella Dominus Jesus, art. n. 4, del 16 giugno 2000, in cui, non in discontinuità ma in perfetta continuità con gli esiti dei lavori conciliari, si erigeva una barriera invalicabile contro la concreta possibilità di un uso strumentale e distorcente delle “aperture” che vi si profilavano nei confronti delle diverse realtà culturali e religiose del mondo contemporaneo: «Il perenne annuncio missionario della Chiesa viene oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso, non solo de facto ma anche de iure (o di principio). Di conseguenza, si ritengono superate verità come, ad esempio, il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo, la natura della fede cristiana rispetto alla credenza nelle altre religioni, il carattere ispirato dei libri della Sacra Scrittura, l'unità personale tra il Verbo eterno e Gesù di Nazareth, l'unità dell'economia del Verbo incarnato e dello Spirito Santo, l'unicità e l'universalità salvifica del mistero di Gesù Cristo, la mediazione salvifica universale della Chiesa, l'inseparabilità, pur nella distinzione, tra il Regno di Dio, Regno di Cristo e la Chiesa, la sussistenza nella Chiesa cattolica dell'unica Chiesa di Cristo».

E, più avanti, a scanso di equivoci, si riportava fedelmente il pensiero espresso dai padri conciliari con un riferimento diretto ed esplicito alla “Dignitatis humanae” del 7 dicembre 1965: «I Padri del Concilio Vaticano II, trattando il tema della vera religione, affermarono: “Noi crediamo che questa unica vera religione sussiste nella Chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore Gesù ha affidato il compito di diffonderla tra tutti gli uomini, dicendo agli apostoli: ‘Andate dunque, ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato’ (Mt 28,19-20). E tutti quanti gli uomini sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che riguarda Dio e la sua Chiesa e, una volta conosciuta, ad abbracciarla e custodirla”».

La religione cattolica, dunque, non ha bisogno di nulla per sussistere nella sua perfetta ed eterna verità, e qualunque dialogo, pur potendo far parte di un processo di evangelizzazione da attuare continuamente nel mondo soprattutto in rapporto alle culture religiose altre da quella cristiano-cattolica, non toglie né aggiunge alcunché alla sua immutabile e perennemente nuova verità, che si tratterà appunto, anche dialogicamente se si vuole, di trasmettere ai cultori di fedi diverse da quella cattolica, ma senza omettere o trascurare di chiamare con il loro nome limiti ed errori delle altrui religioni; perché, in caso contrario, il cristiano finirebbe per dialogare senza testimoniare, o meglio per dialogare solo a condizione di mettersi sotto i piedi il dovere di testimoniare fermamente la sua fede in Cristo.

In questo senso, non è possibile che un cattolico dialoghi con un ebreo limitandosi a dirgli che, in fondo, sono molte le cose che lo accomunano a lui e alla sua fede, senza avvertire il dovere di fargli notare l’essenziale, e cioè che la sua fede, disconoscendo la divinità di Cristo, è semplicemente una negazione della fede cristiana. Identico e ancor più radicale ragionamento vale naturalmente nell’ipotetico rapporto dialogico con un musulmano di fede rigorosamente islamica. Non si favorisce di certo l’amicizia tra i popoli e i diversi universi religiosi a scapito della verità, ovvero della verità cattolica che non necessita di alcun’altra integrazione religiosa, e d’altra parte, a voler ricercare per forza, nel nome di un ecumenismo e un pluralismo religiosi malintesi e sempre più suscettibili di produrre dannosi fraintendimenti, un dialogo interreligioso, di cui è peraltro dubbio persino il valore psicologico e diplomatico, si finisce solo per dare visibilità mediatica a religioni o meglio a false religioni che, come nel caso di ebraismo e islamismo, in mancanza di essa sarebbero forse prima o poi condannate ad implodere storicamente, proprio a causa dell’alto tasso storico, spirituale e teologico di inattendibilità che vi è incorporato.

Non ha sbagliato, tranne forse che nei toni, chi ha scritto: «Le sordide ammucchiate religiose in cui si fa strame del culto dovuto all'unico Dio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo in un sincretismo dove l'eccitazione spinge ad amplessi lussuriosi con idoli satanici - anche se monolatrici - sono considerate dal teologume e dalla pretaglia deviata segno di "apertura" e liberalità. “Dire che il dio dello straniero può essere il nostro dio, è considerato come una prova d'illuminato liberalismo; …Ma questa pretesa maggior larghezza di idee fu proprio quella che distrusse l'idea più larga di tutte: l'idea d'una paternità che unifica sotto di sé tutto il mondo", cioè il vero monoteismo (cfr. Gilbert K. Chesterton, L'uomo eterno p. 120)» (G. Zenone, Contro il dialogo interreligioso relativista, nel sito “La voce di don Camillo”, 24 luglio 2013).

Mi spiace se a mia volta posso apparire sprezzante, soprattutto perché nostro Signore non ci autorizza certo ad annunciare la sua verità con toni sprezzanti, ma in realtà il mio linguaggio severo o polemico nasce dall’incontenibile dolore che mi viene procurato dal vedere che troppo spesso ci si confronta con le altre religioni, o meglio con vere e proprie eresie religiose, non per annunciare Gesù Cristo, unica via per la salvezza, non per controbattere ai propri interlocutori e per confutarne le tesi, ma per motivi opportunistici anche se ingiustificati di spicciola realpolitik, e per abbassarsi demagogicamente al livello di qualsiasi altra credenza.

Ma il cristiano non è portatore di Cristo se ne baratta il pubblico accantonamento con forme di finta o apparente pacificazione strappate molto ipoteticamente ad ebrei o a musulmani in cambio di concessioni “cattoliche” per l’appunto indecorose.