Martinetti filosofo morale

Scritto da Francesco di Maria.

 

Averne oggi intellettuali come Piero Martinetti! Saremmo tutti sicuri di poter contare socialmente su critiche non solo pertinenti ma oneste, non solo corrosive ma soprattutto costruttive, non solo formalmente efficaci ma anche moralmente disinteressate e leali. Intellettuali come Martinetti, che non fu affatto un paladino di valori astrattamente extrastorici e trascendenti (come molta critica ha spesso unilateralmente sostenuto), sarebbero oggi veramente un baluardo di integrità e di libertà in una società democratica di massa in cui, in forme sempre più esasperate, è possibile dire tutto e il contrario di tutto senza che ci si ponga seriamente il problema di tracciare un confine netto o quanto meno visibile tra ciò che è ragionevole e ciò che non lo è, tra ciò che è lecito e ciò che è illecito, e via dicendo. Persino i cattolici, troppo spesso testimoni assenti della loro fede, avrebbero molto da apprendere da un maestro di morale come Martinetti.

Piero Martinetti è un filosofo simpatico, un filosofo molto umano e generoso con gli altri, uno dei filosofi più attraenti e coerenti di tutto il XX secolo. Sì, perché in lui, e non capita molto spesso tra i filosofi, pensiero e vita coincisero, teoresi (una parola difficile che i filosofi usano per impressionare chi li legge o ascolta) e moralità furono tutt’uno, razionalità ed eticità si identificarono completamente. Quello che Martinetti dice come filosofo lo ritroviamo in Martinetti uomo e cittadino: in questo senso egli è un filosofo morale, nel senso specifico che, rispetto a tanti altri filosofi del secolo scorso e dei nostri stessi tempi, egli è un filosofo eminentemente morale non solo in quanto molto critico verso le tendenze irrazionali e le mode del tempo, i conformismi sociali e culturali, le logiche di potere del mondo, ma anche in quanto persona priva di autocompiacimento personale, di superbia intellettuale (che è propria di tutti quelli che si sentono divi, a ragione o a torto), di acredine preconcetta e di pregiudizio verso gli altri, di spirito adulatorio e di comportamento sussiegoso verso chiunque, a cominciare dai “semplici”, da quelli che non “sanno” o non “sanno” abbastanza o non sanno allo stesso modo di come invece pretendono di sapere i sacerdoti del sapere, gli accademici, gli esperti, gli specialisti, e infine di servilismo verso i potenti o di servilismo corporativo (per cui ai colleghi universitari non si può dire di no anche se poi ognuno dice peste e corna dell’altro).

Martinetti è un filosofo morale perché il pensare per il pensare per lui non ha senso, perché le analisi, le congetture o le confutazioni, che fra l’altro si possono sempre aggiustare “dialetticamente” a proprio piacimento, e anche nel caso in cui siano esatte e pertinenti, servono a ben poco se chi le enuncia si comporta male nella sua quotidianità o addirittura all’opposto di quel che va enunciando. Martinetti è un filosofo morale perché per lui il linguaggio, la logica, il metodo, i concetti, non hanno valore al di fuori di un interesse concreto per la persona, per la vita personale come per la vita sociale e la stessa vita politica di un popolo, di una nazione; perché la più raffinata e precisa delle attività teoriche è ben poca cosa se è fine a se stessa e non è funzionale ad un agire pratico volto, almeno virtualmente, a umanizzare, a rendere più giusti e sereni, se non il mondo intero, almeno i rapporti interpersonali all’interno delle famiglie, delle scuole e delle stesse università, delle parrocchie, di ogni ambito della vita civile.

Martinetti è un filosofo morale perché egli cerca di essere filosofo del vero e del bene ad un tempo, del vero, che è inesauribile ed è sempre da conquistare, e del bene, di cui ogni volta vanno faticosamente individuati modi e tempi di attuazione. Non è solo un maestro di libertà, perché specialmente oggi tanti presunti o riconosciuti maestri di libertà sono in realtà maestri di immoralità, di licenziosità individuale e collettiva, di trasgressività puntata contro l’integrità della famiglia, la stabilità e la natura stessa del matrimonio, contro la tenuta e la compattezza stessa del tessuto sociale. No, Martinetti è maestro di libertà ma solo in quanto maestro di vera, universale, benefica moralità.

Tanti uomini, donne, vecchi, bambini che giungono nel nostro Paese da paesi lontani e segnati da guerre, povertà e carenze di ogni genere, in Martinetti oggi troverebbero un grande uomo di cultura ma anche un amico, un fratello, un protettore, non però un filantropo in cerca di consenso per ragioni che ben poco abbiano a che fare con un’etica dell’accoglienza, non però un demagogo esperto nel suscitare simpatie attorno a sé per manipolare poi le coscienze, per utilizzarle o strumentalizzarle in vista di fini illeciti, ma una persona in grado di capire il loro vissuto e in pari tempo di indicare loro una via ragionevole e giusta di integrazione nelle società occidentali.

Il problema centrale del pensiero e della vita di Martinetti era quello del dovere intransigente, della subordinazione dell’uomo morale, cioè dell’uomo virtuoso, dell’uomo onesto, al rispetto di quell’imperativo categorico che, in modo più o meno accentuato, è presente nella coscienza di ogni essere umano. Il non obbedire a tale imperativo è ciò che rende immorale, sia pure in misura e modi diversi, la vita degli uomini. Martinetti godeva di un enorme credito morale non solo tra i suoi allievi ma anche fra professionisti, commercianti, impiegati, operai, che apprezzavano molto l’originalità, l’elevatezza e al tempo stesso la semplicità e la chiarezza del suo magistero e del suo eloquio, e che andavano ad ascoltare le sue lezioni che egli, per scoraggiare quanti non fossero sinceramente interessati ai problemi dello spirito, anticipava addirittura alle 8 del mattino.

Alcuni dei suoi allievi più grati e affezionati hanno opportunamente ricordato come, attraverso le sue lezioni, egli manifestasse costantemente la sua vicinanza ai poveri, agli operai, agli emarginati, pur tenendosi a debita distanza da ideologie massimaliste a sfondo dittatoriale e astrattamente egalitaristiche di ispirazione marxista o anarchica. Il che però non gli impediva di avere rapporti molto cordiali con tutti, come per esempio con le piccole autorità fasciste del suo paese  e con i secondini delle carceri torinesi in cui era rimasto rinchiuso per qualche giorno nel 1935, oppure con cattolici moralmente integri come l’accademico Umberto Padovani e con giovani socialisti antifascisti come Lelio Basso con il quale avrebbe instaurato un rapporto di vera amicizia e di stima, o ancora con il grande ed eroico professore liceale di fede comunista Ennio Carando (fucilato dai fascisti nel febbraio del 45) e con il coraggiosissimo operaio, anche lui comunista, Luigi Capriolo.

Ma Martinetti fu perseguitato dal fascismo e, virtualmente, anche da tutte quelle Chiese filosofiche, religiose e ideologiche che mal sopportavano il suo grande spirito d’indipendenza e la sua rigorosa opposizione tanto al conformismo acritico e servile delle folle quanto ad ogni forma di oppressione esercitata sugli individui per ragioni di potere. E nel 1931 il filosofo piemontese ebbe l’occasione di dimostrare pubblicamente la sua enorme statura morale nel rifiutarsi (unico professore universitario italiano di filosofia), insieme ad altri soli 10 professori universitari italiani su un totale di ben 1200 accademici, di prestare formale giuramento di fedeltà al regime fascista. Perse così il posto e si mise a fare l’agricoltore sul pezzo di terra di casa sua.

Un aristocratico? Certo, ma un aristocratico dello spirito, un grande aristocratico dell’amore per la verità, per la libertà di coscienza e la libertà morale tout court. Peraltro, in quel frangente cosí doloroso, ha notato un filosofo italiano come Remo Cantoni, Martinetti lasciava non solo un esempio inimitabile di integrità morale personale ma un insegnamento ancor oggi prezioso quanto inascoltato in questo nostro Paese, in cui i mediocri (anche, talvolta, quando siano studiosi martinettiani) sopravanzano di gran lunga i capaci e i meritevoli (affermazione questa che suscita stranamente la reazione molto risentita e rozza e, se possibile, anche vendicativa (e ne so qualcosa io stesso), di un buon numero di accademici giunti a lavorare nelle università per meriti inesistenti o molto dubbi e, sostanzialmente, per grazia baronale ricevuta non in virtù di indiscutibili titoli di merito ma, il più delle volte, di puri e semplici rapporti amicali, parentali, o di altrettanto deplorevoli scambi di favore.