Bellezza e fede nell'ideale comunitario

Scritto da Pietro Ducci on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

L’ideale comunitario, al pari di tutti i grandi ideali, ha una storia molto complessa e controversa, ma non c’è dubbio che ancora oggi, per quanto possa sembrare anacronistico e superato, esercita, specialmente nell’ambito di un pensare e di un sentire religiosi non convenzionali e al tempo stesso non deviati, una sua precisa influenza e un fascino di antica e nobile origine –

 

Mentre la comunità, spiegava il sociologo Ferdinand Tönnies in una sua opera del 1887 (Comunità e società), è un’associazione fondata su valori e finalità morali condivisi dagli individui che ne fanno parte, la società è un’associazione fondata su vincoli semplicemente contrattuali, giuridici ed istituzionali, che hanno come obiettivo la reciproca utilità. Se la comunità presuppone un potere di tipo messianico e si regge su un agire razionale rispetto al valore (e ad un valore identitario collettivo connesso alla condivisione di particolari tradizioni o determinate concezioni del mondo), la società presuppone un potere burocratico e si regge su un agire razionale rispetto allo scopo (che è quello di raggiungere per ogni individuo il risultato più vantaggioso possibile attraverso una capacità tecnico-giuridica di risolvere difficoltà inerenti l’esistenza di interessi costantemente conflittuali).

Il nazismo costituisce un esempio di modello sociale di tipo comunitario (basato su sentimenti comuni quali la razza ed il sangue), e un altro esempio di comunitarismo, anche se di natura profondamente diversa, è costituito dal cosiddetto comunitarismo islamico che si richiama ad una comune fede coranica. E sebbene qui si tratti di forme di comunitarismo che, sia pure per ragioni diverse, sarebbe possibile avversare o non desiderare, non è detto che ogni possibile forma di comunitarismo sia inaccettabile. Pare che la vita delle prime comunità cristiane, che si stringevano attorno alla condivisione materiale e spirituale di alcuni essenziali insegnamenti religiosi come la preghiera e la pratica della carità (che non era semplice elemosina), non fosse ispirata da una visione pauperistica ma semplicemente e fraternamente solidaristica della vita sociale.

Si può dire che una vita comunitaria, pur da molti ritenuta ormai più anacronistica o utopica, è sicuramente più bella di una vita societaria, perché in quest’ultimo caso che è poi quello dell’odierna civiltà occidentale, non c’è un diffuso interesse morale ad abolire la conflittualità tra individui ma c’è solo o prevalentemente una volontà contrattuale volta a mediare tra interessi psicologici ed economici conflittuali che però restano ad alimentare le principali dinamiche della vita sociale. Teoricamente l’idea di rendere più comunitaria la vita della società contemporanea corrisponde all’idea che la società contemporanea debba essere meno conflittuale e meno antagonistica sotto il profilo economico e utilitaristico e più collaborativa e competitiva sul piano morale.

L’etica, e possibilmente l’etica evangelica, come criterio dell’economia è una possibilità storica dell’umanità che andrebbe tenuta in considerazione non solo per motivi genericamente spirituali ma in rapporto allo specifico problema economico di come continuare a produrre ricchezza nel mondo superando pericolose forme di sottosviluppo che alla lunga non potrebbero non arrestare, sotto diversi aspetti, lo stesso sviluppo economico mondiale.

Vivere con maggiore spirito comunitario, peraltro, si può anche se non siano ancora mature le oggettive condizioni di un radicale mutamento storico, dal momento che dovrebbe essere più naturale desiderare che il conflitto degli interessi o almeno di certi particolari interessi in società sia rimosso piuttosto che il contrario, anche se si può cominciare a vivere con maggiore spirito comunitario solo là dove le singole persone comincino ad avvertire innanzitutto l’esigenza di risolvere i conflitti esistenti tra i diversi aspetti della propria personalità. E’ questo un passo preliminare per poter vivere in modo più armonico e produttivo nelle relazioni con gli altri. E chi sia in grado di fare questo passo non può indulgere alla teoria liberista di uno Stato minimo che dovrebbe interferire il meno possibile nelle vite individuali ma solo nel senso che esso non dovrebbe costringere nessun individuo a vivere in società secondo uno spirito comunitario che obblighi per esempio ogni individuo a pagare tasse che siano rigorosamente proporzionali alle proprie possibilità economiche e finanziarie e finalizzate ad un’oculata ed equa ridistribuzione delle risorse disponibili (R. Nozick, Anarchia, Stato e Utopia, Firenze, Le Monnier, 1981).

L’opposizione ad uno Stato minimo liberista, però, non significa che l’individuo pervaso da spirito comunitario debba soggiacere ad una perfida logica statalista che, con la scusa del bene comune, gli richieda sacrifici non dovuti e non solo sotto il profilo fiscale. Significa al contrario impegnarsi nella propria quotidianità come se già esistesse uno Stato che adotta politiche economiche e sociali realmente e coerentemente comunitarie e che valorizza con fatti e non con parole quelle vite che vengono spese a favore della giustizia sociale e della libertà di tutti e di ciascuno.

In un’ottica comunitaria perciò non è sbagliato ritenere che, dal punto di vista politico, i rapporti tra le persone dovrebbero avere originariamente un carattere pubblico e non privato [R. Nozick (ex teorico di un liberismo radicale o anarchico), La vita pensata, Milano, Mondadori, 1990], proprio per rafforzare il concetto e il principio per cui ciò che è umanamente e moralmente dovuto alla comunità non può semplicemente scaturire da un giudizio del tutto discrezionale di tipo privato, fermo restando che, sino a quando non si creerà una situazione storico-politica corrispondente ad un’esigenza del genere, l’iniziativa personale o il cosiddetto volontariato o forme diversificate di testimonianza e di impegno civile e culturale potranno concorrere comunque alla crescita dell’anima più autenticamente comunitaria della società stessa. Armonizzare in noi intimamente la parte più solidale con la parte che legittimamente si prende cura del nostro io, è bello moralmente e negli stessi termini in cui armonizzare i propri legittimi interessi con ipotetici e reali interessi negati dei nostri simili sarebbe bello politicamente. L’una e l’altra forma di armonizzazione, insieme, non possono non coinvolgere profondamente anche l’uomo di fede e, ove per l’appunto siano concepite nel nome di Dio e del Dio evangelico, esse, nella loro perfetta ideale congiunzione ed attuazione, costituiscono l’ideale stesso della bellezza religiosa.

Da una parte l’uomo di fede oggi non può non notare con una qualche soddisfazione che, se il ’900 è stato il secolo dei totalitarismi europei il ’900 è stato anche il secolo del crollo totale di questi stessi totalitarismi, pur forse rimanendo in esso quel che secondo alcuni può chiamarsi “panpoliticismo” (eccesso di statalismo, eccesso di sindacalismo, eccesso partitocratico) [D. Fisichella, Il denaro e la democrazia, Firenze, La Nuova Italia Scientifica, 1990], dall’altra egli non può fare a meno di preoccuparsi del successivo e odierno “paneconomicismo” ovvero della tendenziale concentrazione del potere in ristrette oligarchie finanziarie e tecnocratiche e del conseguente accresciuto svilimento della dignità della vita personale e collettiva (Ivi). L’uomo di fede, quindi, ben comprendendo che sia il dominio della politica sia il dominio dell’economia minano profondamente l’integrità della persona e la coesione sociale ed istituzionale dei popoli, favorendo altresí la ricerca spasmodica e talvolta anche armata di fonti sempre nuove di ricchezza e di arricchimento, è attento a testimoniare a favore di una società più aperta al progresso e meno allo sviluppo (pur ritenendo necessario lo sviluppo), alla solidarietà piuttosto che all’efficienza (pur ritenendo necessaria l’efficienza), alla giustizia sociale più che ad ambigue o velleitarie riforme giuridiche ed istituzionali, alla democrazia intesa come attenzione della società e dei suoi poteri politici costituiti per i più disagiati ed emarginati più che alla democrazia intesa come strumento demagogico di libertà e come mezzo di consolidamento di privilegi o di interessi privati “legittimi” ma incompatibili con interessi generali di segno comunitario.

Quando lo spirito comunitario venga pensato e coltivato per via di fede la sua bellezza va ben oltre le logiche partitiche dei grandi numeri, le rivendicazioni sindacali di massa, le oligarchie della tecnocrazia e dell’informazione, e tende ad esprimersi attraverso l’antico monito: senza la carità il mondo della politica, come il mondo stesso, è semplice vanità.

 

(pubblicato in “Bucinator”, 5, 2004)